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“CHI HA PAURA DEI GRECI E DEI ROMANI?” – Maurizio Bettini (ed.Einaudi, 2024)

Si fa un gran parlare di “Radici”, di  “origini”, della  “nostra cultura” contrapposta a quella di “Altri”. E chiose comuni come “Prima noi”, “prima i nostri” , “prima la nostra cultura” e via discorrendo, semplificano le soluzioni per le frustrazioni quotidiane di chi le deve scaricare su “altri” e mai su se stesso. Già, ma da dove deriva cotale atteggiamento? E cosa rispondere a chi ovviamente respinge le accuse di razzismo magari definendosi semplicemente “culturalista”?

Ecco allora che può essere utile uno sguardo alle origini e alle sorgenti della civiltà occidentale . Chi ne ha paura? Si chiede Maurizio Bettini, scrittore e classicista. Il discorso si estende al punto da non limitarsi a ribadire l’importanza delle nostre origini storiche e  culturali , ma di diventare una vera e propria analisi sociolinguistica e di fatto politica.

Bettini opera un procedimento terminologico che parte dalla particella greca “Dià”, cioè “attraverso” e dalla parola “Differenza”, che viene definita come la parola “più difficile da pronunciare” da un’insegnante la cui intervista radiofonica viene riportata in brevi cenni. Già Cicerone riportava l’insidia della “differenza” come potenzialmente minacciosa fra uomini . Ma il problema centrale, sembra dirci Bettini , è l’uso distorto che si fa ormai di parole e di modalità di pensiero per piegarle a uso e consumo di vantaggi (o presunti tali) di carattere meramente utilitaristico. “Identità” e “Differenza” non dunque come occasione di confronto, ma di separazione e barriera. Attenzione però: contrapponendosi in maniera netta a questa “smania divisiva” si rischia di cadere nell’estremo opposto. E’ il caso della cosiddetta “Cancel culture”, che parte dai giorni nostri per arrivare addirittura agli albori della civiltà. Si prospetta dunque, anche da parte di titolari cattedratici, l’eventualità di cancellare parte di testi letterari storici perché ritenuti “sessisti” ; gli apici sono poi toccati con forme di razzismo, per così dire “a rovescio”, come nel caso della traduzione della poesia di Amanda Gorman letta per l’insediamento di Joe Biden: Non si può tradurla in olandese o in catalano perché non esisterebbe un traduttore “geneticamente idoneo”!!!

Per non parlare del caso del professor Dan-el Padilla Peralta, baccalaureato in lettere classiche che individua nella cultura classica, campo suo, la “,matrice di una cultura schiavista , razzista, suprematista” etc.etc. da cui prendere le distanze. E dunque ,per risolvere cotali problematiche , bisogna ricorrere all “Inclusione” a tutti i costi. In due parole, se studiamo i greci e i romani bisogna studiare anche gli egizi, i mediorientali , gli africani NE’ PIU’ NE ‘ MENO che tutte le altre civiltà. E come la mettiamo poi col fatto che le ore di insegnamento ,di studio (e più banalmente le 24 ore di una giornata) a disposizione per umani limiti…sono quello che sono? Mah!

A tali perversioni culturali, che portano a dubitare delle nostre civiltà originarie da sempre studiate a scuola in quanto seminali di maschilismo e di sentimenti razzisti di superiorità civile o altro, Bettini contrappone la saggia (apparentemente) soluzione del “Dialogo” fra persone e popoli. Con riferimento alla particella “dià” ,sopra citata, l’etimologia greca può tornarci utile e d’aiuto nella costruzione, forse, di una rinnovata civiltà.Da una domanda ciceroniana sulla possibilità di prevedere il futuro, emerge un dialogo (a questo punto parola chiave) in cui si sottolinea la necessità di rispettarsi reciprocamente anche tra mentalità opposte  (Credenti e non credenti / mistici e scienziati): col dialogo si raggiunge la conoscenza delle cose . Sul di esso insiste Bettini come soluzione per la paura delle differenze che porta anche all’eccesso di “zelo”, paradossalmente foriero di effetti complementari a quelli che si dice di voler combattere.

 

Purtroppo Bettini pecca forse di ingenuità non accorgendosi che anche la parola “Dialogo” negli ultimi anni ha assunto un formato “standard” come tante altre ed è entrata a far parte di quelle parole come “resilienza”, “libertà”, “democrazia”, talmente abusate da aver perso ormai efficacia, senso e significato. “Dialogo” in che senso”? verrebbe da chiedersi. Anche perché non è affatto detto che esso sia risolutivo. Non a caso spesso si dice “Dialogo fra sordi”, che è quello che non risolve le guerre ma anzi le alimenta ulteriormente.

Forse l’unica soluzione, sembra emergere da questa comunque preziosa lettura, è il vecchio e caro BUON SENSO. Ognuno di noi è chiamato in primo luogo e ruolo a coltivare la curiosità in ogni campo con rispetto e cognizione di causa, accettando il “confronto” (più che il “dialogo”) con l’Altro da sé in senso lato, senza illudersi di poter mettere d’accordo tutti e invitando gli altri di differente età, sesso , cultura , opinioni politiche a fare altrettanto. Solo così forse possiamo recuperare gli stimoli umani che tutte le discipline , (anche quella della letteratura classica di cui  qualcuno ,per convenienza politica o per perversione egotica è arrivato ad auspicare persino l’abolizione) , ci possono fornire, in ogni epoca, ogni giorno. (L.M.)

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“LA POSTURA NARRATIVA” di Paolo Trenta (ed.Castelvecchi, 2024)

Dopo la Pandemia da Covid-19, è emerso in maniera lampante (ma in realtà le “avvisaglie” c’erano già prima) un ripensamento della medicina intesa non solo come panacea, ma come CURA nel senso più ampio e profondo del termine. Non basta la medicina in senso stretto. Ci vuole una modalità di approccio inclusiva e globale . Da qualche anno è emersa in maniera rilevante la Medicina Narrativa, una disciplina che pone l’accento sul rapporto fra paziente  e curatore soprattutto dal punto di vista della parola che racconta la malattia e quella che poi la cura unitamente agli altri elementi di presenza.  Il sociologo Paolo Trenta, in questo saggio, si spinge addirittura oltre proponendo il concetto di “Postura Narrativa”.

La postura, nota generalmente come un atteggiamento prettamente fisico , è qui vista come un atteggiamento “totale”, di attenzione particolare verso quegli aspetti non tanto della malattia in sé ma del paziente che normalmente nella medicina tradizionale vengono messi in secondo piano. Il suo vissuto, la storia dello sviluppo della malattia e  la modifica della vita e dei rapporti sociali che questa ha implicato.

“Niente è meno innocente di una storia” e “non tutto è narrazione” si afferma perentoriamente. Affermazioni forti che mettono al centro la potenza dell’attività narrativa che molto ha a che fare con il teatro. Sguardo, modalità del tono, del ritmo, gestualità, cura nella scelta delle parole , sono elementi di capitale importanza per la strada verso la riconquista del benessere o del miglioramento psicologico non solo del malato ma anche di qualsiasi rapporto umano che abbia la CURA e l’EMPATIA come base convenzionale.

“(Occorrono) saperi, conoscenze, ma soprattutto un modo di guardare l’altro”, afferma Trenta. Un atteggiamento di estrema apertura al prossimo e al mondo , cercando non di sentire “come l’altro” ma CON l’altro, in una prospettiva che faccia uscire ognuno dalla zona di sicurezza, in modo che ci si possa far sorprendere dall’ ignoto e dall’imprevisto , agenti senza i quali non ci può essere evoluzione umana e “guarigione” intesa in senso ampio del termine.

Esplorazione e creatività sono gli strumenti giusti per arrivare, senza fretta , ci dice Trenta, a risultati sorprendenti che non escludono,( anzi sono complementari a ) la medicina tradizionale. Ma come dice Maristella Mancino nella postfazione , nella cura della malattia si può vincere o perdere; nella medicina narrativa che cura la psicologia generale della persona: SI VINCE SEMPRE.

All’esposizione di Trenta sono abbinati una serie di racconti di medici di vari settori a testimonianza diretta di questa relativamente nuova branchia attitudinale della scienza medica. Da approfondire e studiare con curiosità e volontà di dialogo sano inteso come crescita e reale confronto e non il “dialogo” come purtroppo si intende spesso oggi nel senso malato di “ricerca di compromesso”.

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Paolo Pasi: “SACCO E VANZETTI – LA SALVEZZA E’ ALTROVE” (Elèuthera, 2023).

Paolo Pasi : SACCO E VANZEETTI – LA Salvezza è altrove (ed Elèuthera- 2023)

 

“Altrove”. E’ un avverbio che può significare tante cose. Una fuga o una ricerca. O più semplicemente una speranza. Che non è necessariamente una ricerca di una vita in un “paradiso” che poi magari nemmeno esiste, anzi: una vita terrena più equa per l’intera umanità. E’ la sostanza del sogno anarchico, nel senso più nobile del termine , che ricerca la cessazione dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo e giustizia nella libertà .

Paolo Pasi, scrittore e giornalista, racconta così nel suo stile la storia degli anarchici Sacco e Vanzetti, vicenda che scosse un secolo fa gli animi di tutto il mondo per il grottesco e assurdo iter giudiziario che lasciò trapelare palesemente l’intenzione da parte della “giustizia” americana, di  far fuori ad ogni costo due innocenti solo perché ritenuti pericolosi per le loro idee e perché emigrati in terra straniera.

La vicenda è nota. E’ il modo teatrale e “scenico” di raccontarle che fa la differenza. Ma non solo. Nella sua sensibilità di narratore per vocazione e “cronachista” per destino, Pasi utilizza frasi rapide, spezzate, che indugiano sui particolari scenici ma anche sulla psicologia degli affetti; anzi sono proprio questi ultimi che sembrano prevalere spesso sulla vicenda puramente politica e simbolica. Passo dopo passo, seguiamo le vicende dei due protagonisti dall’infanzia, all’impegno politico fino all’emigrazione e all’arresto; la psicologia non fa sconti e noi entriamo insieme alla voce narrante resa come un reportage quasi in presa diretta, nei sentieri che conducono “in fuga dall’economia di guerra” , ma senza mai “abbracciare” un lavoro definitivo (anche la scelta dei termini è insolita e inducente alla riflessione sul senso ultimo dei gesti). Si lambisce più volte la caduta nella follia come rifugio inevitabile dalle conseguenze psichiche del dover subire un iter giudiziario chiaramente farsesco , nonostante i sempre più palesi indizi che portano all’evidenza dell’innocenza.

Pazzesca la descrizione dello scenario dell’esecuzione che apre e chiude la narrazione: la sedia al centro del palco e l’allestimento scenografico, mentre fuori qualcuno aspetta ciò che deve accadere. Sembra il corrispettivo tragico del moderno voyeurismo mediatico che subdolamente gode del patimento del mostro in carcere o sotto i riflettori. Ma qui no. Qui si grida al complotto e all’infamità. La “scena” è per fortuna lontana dai media allora limitati ai giornali o alla radio, ma purtroppo si sa bene cosa accade. Si uccide perché si teme un’idea di uguaglianza. E i boia giudiziari agiscono con “spregiudicata coerenza” mentre l’America, vista come Eden di riscatto, ora “si dissolve come una bolla”.

In tutto questo, a salvare dall’ impazzimento , per i due condannati, ci sono il conforto degli affetti che vengono sempre teneramente descritti tramite i dialoghi e le lettere che i due detenuti scambiano con i familiari e i compagni di lotte. E poi c’è l’ Arte. Essa sì, può sublimare la pazzia e la noia. Vanzetti scrive poesie, traduce dall’inglese alcuni opuscoli. E’ ,banalmente, un modo di tenersi occupati, di tenere allenata e viva la mente. E l’arte è sempre comunque presente anche fra le righe. Pasi, anche musicista e cantautore, nomina le “Vette musicali dell’istante”, che Sacco non riesce a toccare perché “assediato” dalla solitudine. (qui torna alla mente Piero Ciampi “L’ assenza è un assedio). Assenza di libertà che la solidarietà a livello mondiale non basta a lenire.

Dove si può recuperare la “salute” intesa in senso lato, come sanità mentale, psicologica ma anche solamente “logica”, in tutto questo?

“LA SALUTE E’ IN VOI” afferma Vanzetti nel suo ultimo discorso prima di essere giustiziato. Frase che suona come un “arrivederci”, come un sussulto di speranza che può solo riguardare il futuro: è quel “contraddittorio” che troppo spesso viene banalmente evocato come voglia di ribattere a chi non la pensa come noi, e che invece è quella libertà di pensiero che ognuno, mettendosi faccia a faccia con la propria coscienza , potrà salvaguardare per giudicare il tipo di azione commesso su due innocenti. Nell’ultimo dialogo con la sorella, Bartolomeo- “Tumlin” come viene affettuosamente chiamato-, parla trascendendo il regolamento carcerario perché – ultimo paradosso – “adesso non è il momento delle regole”. Proprio un anarchico , che contro le “regole dello Stato” comunemente inteso, lotta convintamente, può ora trovare uno spiraglio di quella libertà senza regole “anarchica”, appunto, che forse domani arriverà o tornerà per l’Uomo.

(L.M.)

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Alessio Lega (a cura di ): LA RESISTENZA IN 100 CANTI (ed.Mimesis, 2022)

Ricordo  di avere redatto una ventina di anni fa  un progetto per le scuole in cui proponevo una sorta di “incontro tra musica e storia”. In due parole si trattava di un ciclo di lezioni in cui attraverso le canzoni si suggeriva una chiave interpretativa dei fatti storici di una determinata epoca. In vena di autocitazionismo, aggiungo che una mia canzone si intitola “Ci ha già pensato lui”. Eh si perché di fatto, a fare- meglio di quanto avrei fatto io -una cosa del genere ci pensa il caro collega Alessio Lega.  Chiariamo subito che definire Alessio “cantautore” è estremamente riduttivo. Alessio è un uomo di cultura nel senso più ampio e nobile del termine, scrittore, saggista, ricercatore, storico , una persona curiosa come pochi nel senso di voler approfondire gli aspetti più misteriosi e reconditi degli anfratti culturali non solo del nostro paese ma anche , tanto per fare un esempio, del versante cantautorale estero(a tal proposito è da citare il suo lavoro sul russo BUlat Okudjava , meritatamente insignito del premio Tenco).

“La resistenza in 100 canti” , come suggerisce il titolo, propone un percorso storico su una pagina fondamentale del nostro paese, certamente approfondito ma per certi aspetti in maniera anche spiazzante. Confesso che , pur essendo sempre stato interessato alla canzone politica e militante in senso stretto, molti di questi canti non li conoscevo. Del resto , sarebbe stato facile limitarsi a fare una versione aggiornata del lavoro culturale (per dirla con Luciano Bianciardi) intrapreso a suo tempo da personalità illustri come Ernesto De Martino o Roberto Leydi. E’ giusto anche “andare avanti” nel senso di scoprire elementi nuovi ma anche darne una chiave personale e rielaborata nelle chiose ad ogni testo. Alessio divide il lavoro in una prefazione e cinque capitoli (Inni di un popolo in rivolta- Feste d’aprile e dopo -Canti antifascisti – Resistenza europea – Nuovo cantastorie partigiano), riassumibili storicamente in un “prima” e un “dopo” la guerra. Perché sono storicamente importanti le canzoni? Perché fino a un certo punto ,scrive Alessio “le canzoni non potevano mai dire la verità” ,a meno che non fossero ligie al regime. “E poi venne bella Ciao”, canzone purtroppo , negli anni recenti,spesso considerata “divisiva”(aggettivo orribile anche  in quanto termine ormai abusato ed esasperante, né più né meno che “resilienza”). Ma soprattutto arrivarono i canti come mezzo di sopravvivenza morale mentre si combatteva con fede e speranza in circostanze spesso drammatiche. Per Alessio la resistenza è “La voce con cui la musica della vita si oppone al silenzio della morte”. E con 100 canti a disposizione c’è di che “opporsi” al mortal silenzio, ma ancora Alessio ci mette in guardia: noi possiamo ancora ricordarle, ascoltarle e anche cantarle, ma “ce le meritiamo in quanto vegliamo sull’eredità di tali ideali e siamo disponibili a difenderli”. Un invito alla coerenza artistica di cui sarebbe proprio da indagare la diffusione: quanti possono realmente cantare questi brani oggi? Il livello dell’imborghesimento di ciascuno di noi, sembra dire Alessio, consente di imbracciare la chitarra (o la fisarmonica, o anche  usare la sola voce a cappella, fa lo stesso) e intonarle?

La ricchezza delle informazioni inserite praticamente in ogni commento a ogni singolo brano è testimonianza dell’importanza dell’elemento artistico come parte essenziale della storia orale. Lega inoltre lo propone in maniera molto personale spesso condita con una leggerezza che tende a sdrammatizzare il “peso” del singolo passaggio storico, ma anche con note di vissuto personale che sottolineano come la fruibilità del “gesto” poetico e canoro diventi parte integrante della rielaborazione che della storia il singolo fruitore, come individuo della storia stessa facente parte e non certo come presunto “eroe”, fa perché la Storia sia poi elemento vivo e non puro insieme di nozioni da mandare a memoria, come spesso abbiamo vissuto a scuola.

La prostituta Romana Gavina C. nel suo libro autobiografico “SENZA PATENTE” del 1976 scrive “Io ragiono che se uno può fare qualcosa per qualcun altro e non lo fa è un gran figlio di mignotta”. Ecco, analogamente, dopo aver letto quest’opera io dico: Chiunque (e riscrivo : chiunque) ,a prescindere dalle sue idee politiche, può qui trovare una chiave di lettura della Resistenza attraverso le voci di chi la ha vissuta, rielaborata e le parole di un ricercatore attendibile e preparato come l’autore. Poi potrà comunque rimanere “da un’altra parte della storia”, se crede, ma non potrà negarne la necessità storica. Se lo fa, o è stupido o è in malafede. (L.M.)

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“GIORGIO AMBROSOLI: DOLORE, ORGOGLIO,MEMORIA” di Francesca Ambrosoli con Luisa Bove (ed. San Paolo, 2022)

Il vero eroe è chi non ha alcuna ambizione ad esserlo. Certamente l’avvocato Giorgio Ambrosoli , liquidatore della banca privata Italiana del faccendiere Michele Sindona negli anni ’70, ucciso l’11 luglio 1979 da un sicario da Sindona ingaggiato, non ha bisogno di siffatti titoli per essere ricordato. Un uomo che ha deciso di compiere il lavoro di cui era stato incaricato, di compierlo bene ,con dedizione e metodo, e soprattutto “in nome dello stato e non per un partito” ,come scrive alla moglie nella nota lettera che precede di quattro anni il suo assassinio.

La figlia Francesca Ambrosoli descrive in “Giorgio Ambrosoli: dolore orgoglio memoria” (scritto in collaborazione con la giornalista Luisa Bove) la sua versione dei fatti. 15 anni dopo la testimonianza del fratello Umberto rilasciata nel volume “Qualunque cosa succeda” ora è la primogenita a raccontare dal suo punto di vista la stessa vicenda. La “cronaca” dei fatti è essenziale e semplice, in quanto si sceglie di dare maggiore spazio ai ricordi e alle sensazioni personali e alla dimensione più “privata”. Del resto è una sfida dichiarata il fatto di riuscire a raccontare questa storia, su cui Francesca si dichiara essere rimasta in passato nelle retrovie, mentre il fratello e la madre già erano pubblicamente attivi in tal senso.

Sono proprio i particolari, le piccole cose personali e le dinamiche degli affetti coi loro aneddoti, a caratterizzare la narrazione, precisa ma anche fluida e spesso commovente. Per chi conosce personalmente Francesca , lo stile narrativo risulta coerente e complementare alla sua personalità, dolce e decisa allo stesso tempo. Spicca l’elemento della fede, sempre molto presente non solo come conforto rappresentato da autorevoli personalità religiose, ma anche come forza propulsiva e forse decisiva nei momenti più drammatici. Francesca nella fase adolescenziale non ha rapporti intensi coi coetanei, si sente spesso a disagio e, nei momenti di maggiore solitudine, sono svaghi alternativi come la chitarra a farle trovare la pace e la serenità almeno in maniera transitoria.

Ma è forse rimarchevole  la dimensione intima del silenzio e dell’ascolto della “Parola” (intesa come parola di Dio ma anche come dimensione dell’affermazione dell’uomo all’inizio della sua comparsa agli albori della civiltà). In un’ottica che il filosofo Brandon LaBelle definirebbe di “giustizia acustica”, si cerca di riportare il senso appropriato della parola e del silenzio come ricerca intima del significato della dimensione “esatta” dell’ascolto. Certamente l’appello muto di Giorgio Ambrosoli non solo non è stato ascoltato da chi all’epoca avrebbe dovuto garantire protezione a chi per esso (cioè per tutti noi) stava alacremente lavorando , ma addirittura a distanza di tempo arriveranno alcune beffarde  e ciniche sortite tra cui quella infelicissima di Andreotti, all’epoca dei fatti narrati presidente del consiglio, che sardonicamente commenterà “Ambrosoli se l’andava cercando”!

E’ qui,dunque ,che  la speranza che il credente trova nella fede, anche l’agnostico o l’ateo può trovare in UN ascolto preciso. Quello della “Parola”. La parola che però non è “commento”. Il sacerdote che pronuncia l’omelia funebre di Giorgio, in una chiesa semivuota dove praticamente nessun rappresentante dello stato è presente (e qui risuonano inquietanti le parole di Leonardo Sciascia :”Lo stato non può processare se stesso”)invita a non “commentare” quello che non è oggi razionalmente spiegabile. Come è possibile che un uomo, per avere fatto il suo dovere , faccia una fine così atroce, abbandonato dallo stato per aver fatto con rigore rispettare le sue leggi? Nell’invito a evitare il commento perché “di disturbo al dolore”, forse è davvero il SILENZIO che può portare all’ascolto del “giusto”. Nel silenzio, nella semplicità di essere, di comportarsi, nella discrezione degli atteggiamenti con cui ci si affaccia al mondo che ci aspetta, si trova la forza e la ragione per andare avanti e testimoniare, con una “parola” pura, onesta, legale, e priva di orpelli. Come lo è Francesca. Come molti altri testimoni di dolore e di forza “appresa”, ereditata e portata avanti con dignità.

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“LA MUSICA DEL FUTURO” di Roberto Manfredi – 2023. ed.Tempesta

ROBERTO MANFREDI – La musica del futuro.

 

“La paura del domani è sbagliata e tu lo sai” cantava Eugenio Finardi negli anni 70. Oggi che rispetto ad allora un “domani” è arrivato, ci si domanda se c’era e se c’è ancora da aver paura e di cosa, poi. Di una guerra? Di un progresso inarrestabile? Di qualcosa di subdolo e pervasivo che neppure si riesce a definire con chiarezza? Roberto Manfredi,  produttore discografico e divulgatore, propone la sua visuale sull’impatto che l’Intelligenza artificiale (il “tema del momento”, potremmo dire) sta avendo e avrà sul modo di fare musica. Manfredi sviscera gli aspetti della questione ragionando sulle potenzialità degli strumenti che si sono succeduti nel corso dei decenni per fare musica. Si guarda al passato e al futuro dei concerti live, della riproduzione della musica registrata , della radio e persino dei ruoli che hanno avuto e potrebbero non più avere gli esseri umani nell’arte musicale, canora e di conduzione dei programmi radiotelevisivi e nel web.

Manfredi non fa mistero della sua visione globalmente ottimistica dello strumento che oggi definiamo Intelligenza artificiale (ma che in realtà si presenta come ultima e più avanzata fase di un processo già in atto da decenni); enuclea i vantaggi del suo utilizzo sottolineando l’aspetto intrinseco della sua “laicità” (ma sull’utilizzo di questo termine c’è sempre molta confusione; non sarebbe più opportuno parlare di “democrazia”?) pur riconoscendo che le macchine restano pur sempre elementi “senza un’anima”. Si percepisce fra le righe anche l’inquietante panorama che può fornire il fatto di – come si dice -“riprodurre la nostra memoria” , quando l’AI non solo crea ologrammi che assurgono al ruolo di vere e proprie rock star virtuali, ma addirittura riporta in vita divi defunti del passato o comunque gruppi disciolti (si veda l’esempio della riunione virtuale degli Abba o di concerti con l’ologramma di Elvis Presley). Dove si potrebbe andare a parare dunque?: Un disperato tentativo di “vincere la morte” attraverso il resuscitare virtualmente i “miti” scomparsi ? Un puro divertissement di poco differente da un film biografico musicale? O cosa altro? Purtroppo è vero che “il passato tira più del presente” e in questo lo stesso Manfredi lamenta come di ciò sia una spia il fatto che i nuovi personaggi della musica siano “condannati a replicare” i successi di cantanti del passato per il fatto che il “nuovo” non interessa a nessuno. Ma è altrettanto vero che qui ciò che è in gioco è la modifica della dimensione delle nostre “percezioni sensoriali connesse alla musica”: Con una pervasività come quella della moderna tecnologia e considerata la tendenziale “pigrizia” dell’essere umano, il futuro (prossimo) sembra ormai segnato. La possibilità di clonare le voci (non solo per la musica ma anche per il mondo del cinema e del doppiaggio, non a caso attualmente in rivolta) e le persone, vive e morte,  sta forse per rendere l’umanità quasi “superflua”?

Il dibattito si apre ed è destinato a restare aperto. Il lettore è dunque invitato e anzi stimolato a farsi la sua propria opinione tra una panoramica dei “Guru dell’Universo artificiale” e una carrellata di artisti “generativi”. In generale, particolare interesse destano alcune informazioni come la storia della invenzione del sistema acustico olofonico negli anni ‘80 da parte dei fratelli Umberto e Maurizio Maggi. Forse si poteva fare a meno di dare a spazio ad alcuni ipertrofici “ego” di gente che sembra più preoccupata di sottolineare il proprio “essere artista” più che a dare spunti di riflessione sulla funzione della nuova frontiera tecnologica musicale. Il pregio della scelta di dare più punti di vista differenti restituisce la libertà al lettore di farsi un’opinione personalizzata dopo aver esaminato la questione nelle sue più complete sfaccettature. Del resto lo stesso Manfredi, nella parte a se stesso dedicata tra gli esponenti delle “generazioni generative”, afferma che noi “non siamo macchine” ma allo stesso tempo prevede che a parte forse in Italia, il “business della musica sarà totalmente artificiale”. A chi scrive pare assai rilevante l’intervento del giornalista Gigi Beltrame il cui fulcro si può ragionevolmente riassumere nella frase “Il pericolo più grande è quello di affidarsi ciecamente all’AI e cedere (ad essa) le nostre responsabilità”

La difficoltà di porsi con mente “integra” di fronte a uno dei temi del momento forse non concede la possibilità di dare un giudizio “definitivo” su un’opera pur pregevole e approfondita come questa. I grandi interrogativi che non sono affatto nuovi ma ciclicamente si pongono, forse addirittura a partire dalla rivoluzione industriale vanno sempre più verso, come suggerirebbe Umberto Galimberti, “cosa la tecnica può arrivare a fare di noi” piuttosto che noi della tecnica. Quasi inevitabile ormai chiedersi: anche la musica verrà totalmente automatizzata al punto di non aver più bisogno/ senso / necessità anche solo di scrivere una canzone , un brano musicale, un testo poetico? Al momento la risposta più plausibile verte ancora sull’uso che ne sapremo usare (anche se il citato Galimberti avrebbe qualcosa da obiettare) e dunque un semplice “DIPENDE DA NOI”. Nanni Moretti ribatterebbe: “E se dipende da noi è sicuro che non ce la faremo”. Ma noi controproponiamo : Cosa intendiamo per “NOI”? La massa o un “io, tu , lui” di chi ha sensibilità e competenza? Stiamo a vedere…

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“BORGO LENIN” di Cinzia Romagnoli (ed. Koi Press,2017)

E’ sempre difficile trovare le parole giuste per descrivere le sensazioni dopo una lettura di un testo dove si intrecciano più piani narrativi ,dal giallo alla storia, dalla musica alla psicologia. La paura maggiore è quella, banale ma fatale, di non aver compreso. Di aver smarrito la traiettoria, di non sapere a cosa dare la priorità sul piano del significato. Del resto forse è proprio questa la sfida che un’autrice come Cinzia Romagnoli ci lancia nel suo “BORGO LENIN”, ambiziosa ricostruzione storico – poliziesca sullo sfondo della pianura padana che dai giorni nostri rimanda ad un passato di lotte e di “rinascita” .

I due principali piani narrativi sono l’indagine da parte del poliziotto Fabio Sinigaglia sulla morte di un pensionato Bolognese e il passato cui questa rimanda, fatto di miserie e di guerra, di invasioni e di semplicità , come da “copione”, potremmo dire, nei borghi umili della pianura padana nella seconda guerra mondiale. Il poliziotto Sinigaglia è uno dei tanti professionisti, poco entusiasta della vita e della professione, ma ligio al dovere . I ragazzi della vicenda che fa da contraltare sul piano narrativo (in particolare i protagonisti Libero, Taramòt e Culodritto) sono i bambini attraverso i cui occhi la guerra e i suoi contorni assumono le sembianze quasi di un film , di un mondo pericoloso ma a suo modo attraente, da guardare di nascosto e dove intervenire al momento giusto, con rischi ma anche con le ambizioni di “uomini in erba”. Sono proprio i loro occhi ,spesso rivelatori, a “leggere i segreti” nascosti , nonostante le circostanze belliche sembrino sminuire quei “particolari. Libero, uno dei tre, osserva il paesaggio con la nebbia di novembre , i pioppi…dove trova la metafora della “rappresaglia” e di tutte le faccende degli adulti: ecco qui il primo elemento poetico – descrittivo che ci fa entrare in empatia con i protagonisti. E’ a quel passato che la morte di questo pensionato apparentemente insignificante rimanda, proprio a causa di un nominativo su un biglietto da lui lasciato; Sinigaglia e i suoi colleghi nella loro indagine su quel nominativo , trovano contatti cui risalire , per arrivare al passato sopra descritto ; da qui si dipanano i continui rimandi a passato e presente per arrivare con una vicenda piuttosto intricata, alla risoluzione del “giallo” iniziale.

Al di là della “fabula” in sé, è interessante vedere come la narrazione parta con periodi rapidi ,spezzati che fanno da contraltare con il tema della morte che è quello essenziale che ci si presenta davanti, con il suo attacco narrativo “La morte non ha nulla di nobile”. E il richiamo alla “Tabula Rasa” di Arvo Part ne è il contraltare musicale ,come ogni capitolo del resto avrà un riferimento di tal genere. I gesti semplici e annoiati  del morituro espletano il rapido “precipitare” della vita che a un altro mondo poi conduce. Ben altro tipo di frenesia ci attende dopo ,infatti. E sarà proprio quello che fa da sfondo alla “guerra personale” dei ragazzi che, pur nella dura condizione in cui vivono , costituirà la loro crescita . Difficile a maggior ragione perché gli adulti, coloro che dovrebbero insegnarci a guardare e a vivere il mondo, impongono di “non dire niente di quello che i grandi dicono”, per ovvia paura del nemico germanico, ma cosa che nei ragazzi genere confusione. Ad esempio i giovani uomini in erba si domandano cosa sarà mai questo “estremismo”? Forse una malattia? Con questi elementi grotteschi si stempera la drammaticità di fondo della narrazione.

Quando invece la tragedia bellica da tregua, ecco che il calore del focolare domestico è arricchito dal potere del racconto: Il potere narrativo del forestiero giunto in paese, colora di mistero e di fascino le sere dei ragazzi con le storie narrate sulle basi delle costellazioni, e poi regala a libero l’Odissea di Omero, raccomandandogli di leggerlo e facendo leva sulla similitudine fra “LIBRO” e “LIBERO”, ovvero il suo nome. Ecco: il potere della parola narrata e scritta può trionfare su tutto, su un’umanità adulta ma in realtà ancora troppo primitiva per poter liberarsi da quella smania egoica e irrisolta che porta poi alla guerra ; Troviamo dunque il Racconto come recupero dell’umiltà e della primigenìa,che sono elementi chiave per “tornare” a noi. Del resto , per parte sua anche l’umile poliziotto Sinigaglia trova la sua dimensione in una dimessa e grigia solitudine che però è stemperata da alcune considerazioni semplici ma efficaci. Nella sua zia accudente e a modo suo presente , che gli fa trovare sempre piatti squisiti, considera che “non siamo soli finché qualcuno cucina per noi”. Ecco: a modo suo ognuno è in situazioni di precarietà ,a vari livelli: ma è nelle piccole cose che colpiscono direttamente i “sensi” che ognuno troverà il suo riscatto. Del resto , come indica l’autrice “Crescere è un po come essere sempre altrove”, in una instancabile ricerca di verità, personale ed universale. Anche se le “buone cause non sorridono mai”, come ha a constatare il poliziotto e allora sta a noi scavare nel tufo della realtà perché magari anche la guerra di miseria sangue e morte, possa trasformarsi in una “guerra positiva” e possiamo positivamente ritrovarci come degli esploratori, che combattono una guerra di ricerca personale come il “Giapponese nella giungla” ,ovvero colui che non crede che sia finita la guerra anche quando questa è cessata per il resto del mondo.

(L.M.)

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“LE SORELLE MISERICORDIA” di Marco Ciriello (ed. Spartaco, 2017)

 

Gara, competizione, partita…forse sono parole d’ordine che, nella loro sinonimia definiscono meglio di altre, vorremmo dire, la sostanza della società di oggi ma in realtà sono sempre esistite. Non a caso lo sport è una delle discipline che meglio riassume la dinamica “interfacciale” della modalità relazionale dell’uomo sin dai tempi dell’antica Grecia . Quando poi ci si mette una partita “estrema” destinata comunque vada a essere perduta, come quella con la morte, allora è il momento di fare ricorso  alle armi più estreme o che tali noi riteniamo avere nel nostro “arsenale”. Non è facile descrivere le sensazioni provate nella letture di “Le sorelle Misericordia” di Marco Ciriello. Qua si possono ritrovare riassunte le sfide testé descritte in una situazione estrema e anche perciò ricca di situazioni vulcaniche paradossalmente vissute in una situazione che riporta alla staticità forzata (o ricercata) contrapposta a dinamicità di partenza incarnate dalle due protagoniste:  da una parte da Laura, campionessa di tennis che abbandona inspiegabilmente la finalissima che sta giocando in Australia perché , dice lei, folgorata da una apparizione sacra che la costringe a cambiare improvvisamente vita e visione globale ; dall’altra sua sorella Cristiana , costretta sulla sedia a rotelle dalla SLA , dopo una vita modesta e poco gratificante , che le farà emergere il cinismo e il disincanto che già la accompagnavano prima, ma ora nella sua forma più agghiacciante. Laura dichiara di aver abbandonato i sogni sportivi di gloria per dedicarsi totalmente ad accudire la sfortunata sorella minore.

In realtà , a partire da questo momento, la “partita a Tennis” della attività precedente di Laura sembra cedere il passo ad  un metaforico e  continuo ping – pong tra i diversi atteggiamenti verso il mondo; In apparenza Laura , forte della sua fede , utilizza ogni mezzo a disposizione per aiutare Cristiana a superare il dolore derivante dalla sua condizione; ma Cristiana , non credente , controbatte negando la possibilità di ricerca di qualsiasi “senso” logico della condizione.  A ben guardare forse però, si tratta di una partita competitiva che ora si gioca sul piano della dialettica speculativa di posizioni teoriche e dove la ricerca di aiuto è forse solo un pretesto per “vincere” la partita dell’affermazione personale che ognuno gioca nella consapevolezza che il mondo delle rispettive “vanità” se n’è ormai andato. (Laura non è più di fatto una campionessa di tennis, Cristiana laureata in economia e commercio non ha mai di fatto messo a frutto il suo titolo in situazioni appaganti).

Tutto il resto è un conseguente derivato da queste posizioni di partenza . La sapienza dell’autore  emerge nel confezionare passaggi emblematici dove, in maniera per lo più non didascalica , risplendono  i vari aspetti della questione che concorrono a costruire il “puzzle” della vicenda come un quadro composto da vari elementi ognuno è significativo: si vedano ad esempio, Calvinianamente parlando, la rapidità e l’esattezza e la leggerezza con cui è descritta l’”ultima partita giocata” da Laura che risulta poi essere il suo Match migliore, come una sorta di finale in crescendo di matrice Rossiniana ; oppure alcuni incontri verbali piuttosto coloriti (“Confondere il Credo con lo shopping” , come a risaltare la fede da “supermercato” che Cristiana rileva in sua sorella Laura nel vano tentativo di consolarla). In tutto questo panorama la figura apparentemente “vincente” ma che nel contesto risulta quella più banale è quella dell’allenatore di Laura, Claudio, cinico ed arrivista ,convinto che basti “capire i propri difetti e lavorare duro per eliminarli” per essere un uomo di successo e di risultati. E forse però, dal suo punto di vista, può avere ragione. Perché nel suo mondo non c’è spazio per i dubbi, la sua preoccupazione è che la Laura che ha allenato e costruito come campionessa, torni presto ad allenarsi, non può cedere ai sentimentalismi pur nobili e complessi che  accompagnano la sua pupilla. Il fatto è che nel momento in cui la questione concreta su cosa sia davvero lo sport, ci si accorge che non è lo sport in sé che fa sentire unici, perché più a livelli alti si sale, più si rimane “imprigionati” dal gioco, e forse la banalità del successo è una prigione tranquillizzante e speculare a quella “definitiva” di Cristiana. E’ dunque la fede la chiave della realizzazione? No, neppure questa è la risposta. “Vincere significa accettare” , come dice Roberto Vecchioni in una sua canzone. E dunque se Cristiana non ha altra scelta che accettare la sua condizione che la condurrà alla morte, anche Laura deve affrontare il suo calvario di dubbi che la porterà ad una sottile e sottesa “perdita” della fede per poi magari riuscire a trasformarla in qualcosa di diverso; e dato che le parole più efficaci sono – come in questo caso –quelle meno dirette, consigliamo ai lettori dotati di sensibilità di lasciarsi andare al magico fluire della preghiera che definiremmo “musicale” in cui si azzardano innumerevoli definizioni di Dio all’inizio del quarto capitolo e che precedono il viaggio a Barcellona delle due sorelle. Ma anche ,e soprattutto, al prezioso “interludio” che suona quasi come un soliloquio meditativo dell’autore, sulla definizione degli esseri umani viaggianti sulla “Cattiva strada” ( e anche qui riandiamo con la mente ad un altro esponente della canzone d’autore come Fabrizio De Andrè); e piuttosto che espletare (cosa peraltro moralmente proibita ad un recensore) il finale della storia, preferiamo chiudere il nostro sguardo sulla “scena di perfezione” che vede Laura andarsene mentre Cristiana rimane a guardare incantata e forse non più cinica per la prima volta, i tennisti che liberi nella loro danza elegante, librano i loro corpi non più in una vera e propria competizione ma in un pittoresco quadro di libertà e di serenità, forse ora ad un passo da essere raggiunta dopo tanta sofferenza.

(L.M.)

canzone dell'immortale pasi

“LA CANZONE DELL’IMMORTALE” di Paolo pasi (Spartaco, 2017)

Ponete il caso di essere appassionati di un genere artistico spesso ritenuto dai più “troppo rivolto alle masse” e quindi non considerabile del tutto tale. E immaginate un giorno di trovarvi di fronte ad un’opera letteraria o artistica che non solo nobilita quel genere ma lo fa al punto tale da elevarlo a crocevia risolutivo di una serie di problematiche esistenziali, politiche, sociali. Bene: il minimo che possa capitare è di rimanere sconcertati, a bocca aperta, e a maggior ragione se si ha la sensazione di trovarsi di fronte a un capolavoro letterario. Paolo Pasi, con il suo “La canzone dell’immortale”, non solo propone una viscerale dichiarazione d’amore per il genere della canzone (o come spesso si dice con malcelato snobismo , della “canzonetta”), ma addirittura- attraverso ciò – riesce a condensare con sapienza olistica (per così dire) le aspirazioni, le frustrazioni, le occasioni mancate e quelle ancora da mancare della mezza età tentando di ingannare in senso lato le umane dimensioni del tempo e dello spazio, quasi si possano bloccare e manovrare a proprio piacere con una maestria i cui connotati  sfuggono persino al lettore più attento. Del resto in apertura di testo si dice che “il tempo è irrilevante”, frase che solo un immortale di livello “tripla A” – come è e si dichiara il protagonista indicato come “LATO A” – può dire. Ma il fatto è che anche l’essenza e i privilegi dell’immortalità sono messi in discussione. E neppure il co – protagonista “LATO B” , il cinquantenne cantautore frustrato del “rating” “Classe B” può dirsi  del tutto “sconfitto” se curiose quanto insperate strade gli si prospettano soprattutto grazie alle geniali intuizioni della figlia .

 

L’ambientazione “planetaria” cui si fa cenno nell’introduzione ( dal “Pianeta eletto” proviene l’immortale del lato A e nel “pianeta delle esistenze perdute”  può essere collocato il mortale del lato B)  ci rimanda apparentemente ad una dimensione di felicità e di infelicità iniziale come i pianeti “FELONA E SORONA” dell’omonimo disco del gruppo “Le orme” del 1973 ; e come tali pianeti assisteremo ad un progressivo avvicinamento dei due poli che però non sarà mai dichiarato e riconosciuto dai protagonisti ,a differenza che nell’lp citato;  Ci troviamo  in una dimensione “trans- globalizzata”, dove i cittadini sono classificati con le stesse lettere del rating finanziario e dove il motto “Credere obbedire competere” rivela una sorta di fascismo come dimensione naturale dell’uomo “vincente” .  L’immortale smentisce le “ingenue visioni” sulla sua condizione, vista dai più come eterna beatitudine, svelando la sua, si potrebbe dire , “noia immortale” (invece che mortale), sempre in attesa di una canzone  che “squarci il velo paradisiaco della sua immortalità”. Condizione analoga e speculare al mortale “Lato B” che nel suo pianeta desolato vive il ruolo per lui avvilente di addetto dell’archivio digitale permanente ,dove si selezionano le canzoni da salvare e quelle da cancellare secondo un inquietante “indice di produttività emotiva” derivante dalle stesse sulla popolazione. Egli vive con una canzone “latente”, cioè da lui composta o abbozzata tanti anni prima ma poi dimenticata , che non riesce a ricordare e lo tormenta.  A trovare una possibile soluzione sarà la figlia Caterina suggerendogli di rivolgersi all’”ospedale delle canzoni” di cui egli fino a quel momento ignora la possibile esistenza: Forse lì troverà la sua canzone “malata”, ma finalmente “ricordata”.

 

In realtà il lato A e il lato B troveranno il punto di incontro nella figura di un compositore – cantore poeta in grado di condensare i reciproci riscatti : Per il “Lato A” quello di scrivere una canzone richiestagli dalla fantomatica immortale Elisia, per il “Lato B” quello di ritrovare la sua canzone e l’atto del suo talento naturale . Come andrà a finire?

“Niente è come sembra” ci ricorda Franco Battiato e qua sembra proprio di essere di fronte ad una serie di certezze che crollano, di veli che si squarciano, anche negli angoli più reconditi del nostro inconscio; Le canzoni, le musiche fanno parte della nostra vita e la questione preoccupante è che ora non servono nemmeno più a vendere ma a “far vendere”  come in una sorta di serie di scatole cinesi della logica commerciale, non come “mezzo”, bensì  come tramite per un ulteriore mezzo; In effetti fra le righe del testo c’è molto da scoprire; a parte le continue citazioni di brani soprattutto cantautorali che Pasi sfodera nel progresso della narrazione (che rimandano ad elementi della vicenda in quanto tale), vi sono dei segnali in codice che non fanno che aumentare l’inquietudine della perversione manipolante di questo mondo “di sopra” : A.Di.Pe. è l’acronimo di Archivio digitale permanente, dove lavora il nostro “Lato B”: letto così ci rimanda alla “crescita della pancia” che spesso contraddistingue la perdita di energia e la pigrizia crescente tipica della mezza età: dunque “comodità” nella pigrizia derivante dalla becera “evasione” delle canzoni stesse: insomma un ente digitale volto subdolamente a “controllarci” e ad “acquietarci”. Solo qualche volta a qualche abitante del pianeta terra capita la fortuna di venire “estratto” a sorte per uscire dalla routine dominatoria e avere una “seconda possibilità”; ma sembra essere il corrispettivo delle vincite al superenalotto o al bingo e quindi che tocchi ad uno piuttosto che ad un altro è, per l’appunto,  solo questione di fortuna.

E’ proprio la richiesta di una canzone- che turba l’imperturbabilità “presuntuosa” dell’immortale- l’elemento potenzialmente “risolutivo” che impedisce di far figurare il “Lato A” come vincitore della vicenda, anche se forse egli non fa granché per mostrarsi tale visto lo scarso entusiasmo che mostra nella descrizione di se stesso lungo le pagine iniziali; ma la sufficienza e la supponenza fra le righe che ad ogni “ripresa” (capitolo) a lui destinata emerge dalla sua loquela ce lo fa diventare irritante ed antipatico ed il fatto, come si diceva, della richiesta di una canzone da parte di Elisia , lo “abbassa” se non fra i comuni mortali comunque ad un piano di “raggiungibilità” e vulnerabilità dove nel nostro intimo lo possiamo già più facilmente accettare.

Del resto lo stesso fatto che i due protagonisti vengano indicati come  “lato a” e ”lato b” induce a ritenerli non due antipodi ma due facce della stessa medaglia, lato vincente e lato “perdente” o secondario, lato divino e lato mortale, in cui,  come in un disco, non è detto che il primo risulti di fatto migliore del secondo

Anche la psicanalisi non può mancare in questa serie di peripezie e dunque al nostro lato “b” è offerta la possibilità di uscire da quello che viene individuato come disagio generale, una strana “terapia” musicale con lo “psicomusico” Chioma. Ma in realtà la scoperta più interessante delle varie “ricerche” che vertono più o meno sull’inconscio è quella che capita all’immortale quando il compositore Taruk rivela quello che forse è il punto cruciale della questione, ovvero che l’ispirazione più profonda e dunque la creatività risolutiva può avvenire solo  nell’assenza, nel vuoto , nella dimenticanza ; il che è paradossale per un immortale che nega importanza o addirittura l’esistenza del passato e del futuro come significative esperienze delle dimensioni; ma tant’è : per uscire dalla “noia immortale o mortale” nulla v’è di meglio della creatività personale e più che dall’esperienza deriva dalla dimenticanza. Citando un successo del disciolto gruppo Aereoplani Italiani: “Non imparare ma dimenticare”!

Pasi forse “toppa” soltanto quando sembra colorire un po’ troppo la dimensione narrativa che arricchisce a dismisura la dimensione cosmica dei due protagonisti, forse nel timore di non dire abbastanza, di non riuscire in una titanica impresa quale è quella che sembra proporsi questo romanzo: la nobilitazione della forma canzone al punto da vederla come chiave di lettura del senso della vita. Ma è innegabile che ci troviamo di fronte ad un capolavoro del genere che, ci permettiamo di “modestamente proporre” tra il serio e il faceto, meriterebbe forse di essere adottato come libro di testo, se non nei conservatori, almeno al Centro Europeo di Toscolano, la scuola per cantautori e interpreti della canzone di Mogol.

(L.M.)

 

cop buonanotte leone

“BUONANOTTE LEONE” di Marina Fedele (ed. Giacomo Morandi editore,2016)

“BUONA NOTTE LEONE” di Marina Fedele (ed.Giacomo Morandi editore, 2016)

 

Qualche tempo fa commentando l’estetica di un telegiornale della RAI si parlò di “panino”. Con tale denominazione si intendeva una modalità di informazione caratterizzata da una sorta di schema A – B – A dove “A stava per la parola affidata alle voci “governative” e “B” a quelle di opposizione, quindi con il fattuale “vantaggio” di 2 a 1 per le “controrepliche” di stampo governativo.

Chissà se lo schema del “panino” può funzionare anche per l’effetto reso da alcune opere letterarie dove , potremmo schematicamente dire, si “parte bene” per poi “cadere” e salvarsi in corner solo verso la fine dello scritto. A noi personalmente pare questo il caso del romanzo “Buonanotte leone” della scrittrice Marina Fedele. In una Italia  del dopoguerra che ancora , nonostante il boom economico, stenta a trovare una dimensione di stabilità , si susseguono le vicende di Nina, ragazzina irrequieta e ansiosa di conoscenza e di vita, affezionata al padre e allo zio che troppo presto se ne vanno dal mondo lasciandola rabbiosa (specialmente con quel Gesù che mamma e insegnanti le insegnano essere tanto buono) e persa nei suoi meandri di eterna sognatrice, poco ligia ai doveri scolastici e agli “schemi” tradizionali. Da lì comincerà il suo “viaggio di formazione”  scandito più che altro dai vari uomini che incontra sul suo percorso , e accompagnata dalla presenza reale ma allo stesso tempo simbolica del suo leone di pezza che un po’ le ricorda la sua infanzia e un po’ la conforta prima di mettersi a dormire come una sorta di coperta di Linus che anche da adulta le tiene compagnia.

Non riteniamo necessari ulteriori elementi per dare l’idea della “fabula” dell’opera, leggendo la quale poi ognuno potrà farsi la propria idea.  Ci pare invece interessante rilevare, come si accennava, una bella ambientazione iniziale evocata dalle canzoni degli anni ‘ 50 “nate per dimenticare una guerra poco lontana” e la metonimia a tinte rapide dei piedi danzanti che ne seguono il ritmo e la dinamica, mentre la colonna sonora preferita di Nina resta il valzer lento della Chapliniana “Fascination”; Il movimento artistico e leggiadro della danza si trasforma però ben presto nel movimento reale del trasferimento per lavoro del papà di Nina , che confluisce poi nel moto interiore tormentato della ragazza e delle sue vicissitudini successive. A partire da qui, la dinamica che si preannuncia interessante prende però una piega a nostro parere stanca e prevedibile, con periodi grammaticalmente molto spezzati e non molto distanti tecnicamente dai “pensierini delle elementari” e con episodi forse più interessanti nell’ambito della soap opera che non nella letteratura da romanzo. Ogni episodio è dedicato all’amore di turno ,si chiami Marco, Alessio, Diego o Alessandro, ognuno con il suo fascino e le sue beghe, nessuno che risalti o brilli per significative doti o caratteristiche, ma tutti cadenzati da una narrazione molto “tipica” e a volte frammentaria, con qualche eccesso didascalico e descrittivo (“abbastanza bene non vuol dire tantissimo” “cosa difficile ,molto difficile e più il tempo passava e più diventava difficile” e così via).

Solo verso la fine, quando anche l’ennesima avventura di coppia si rivelerà sostanzialmente un fallimento, la narrazione sembra “risollevarsi”, quando un giorno Nina viene a sapere per caso del ricovero dalla cugina Silvia, volontaria in una clinica privata, del ricovero di Marco, quell’amore impossibile o forse “impossibilitato” dalle origini causa allontanamento geografico forzato per lavoro. Marco vi si trova per una malattia rara accompagnata da una forma depressiva: il reincontro fra lui e Nina, dopo tanti anni , per la delicatezza del racconto e per l’attenzione riservata ai dettagli , alla fluidità dei sentimenti , ci sembra ciò che “riscatta” con dignità il resto del romanzo, che per il resto appare più un’occasione mancata, un tentativo un po’ goffo  di tracciare uno spaccato di vita quotidiana su un’Italia del dopoguerra su cui molto è stato detto e molto ci può essere ancora da dire , ma in merito a  cui, francamente, ci pare sia stato realizzato di meglio.

(L.M.)