Una partita a scacchi con la tensione, l’intreccio e soprattutto la psicologia: questa ci pare la definizione più immediata per descrivere l’atteggiamento di chi si accinge a comporre un racconto giallo, che quasi sempre ha delle tinte “noir”. Ma i colori son solo definizioni di comodo; più “scomodo” è mettere insieme i vari elementi dei personaggi di una storia e “indovinare” la combinazione vincente ed evitare modalità e passaggi scontati. E ci pare che Sara Magnoli, giornalista e scrittrice dalla valida penna, ci riesca piuttosto bene; forte della esperienza della saga di “Zac e Lalo”, ovvero la serie di gialli dedicati ai ragazzi, eccola finalmente alla prova con un genere più “classico”.
La ex- giornalista Lorenza Maj, che al momento della vicenda si dedica a un più prosaico lavoro di centralinista lasciandosi alle spalle un matrimonio fallito e una città che non ama, viene coinvolta suo malgrado nell’oscura vicenda della morte della cantante tedesca Hannelore Von Drier. Quest’ultima viene ritrovata morta nei camerini del teatro della città (la stessa da cui era fuggita Lorenza sei anni prima) dove sarebbe dovuta tornare a cantare dopo anni di assenza dalle scene , con un biglietto curioso e inquietante: nel timore di essere uccisa la cantante indica Lorenza come la referente cui chiedere informazioni in caso di assassinio. Peccato che Lorenza ritenga di non aver nulla a che fare con l’artista. Ma le indagini ovviamente, a causa di questo indizio, non possono escluderla . Da lì Lorenza si troverà dunque costretta a fare i conti col proprio passato, tornando nella città da cui era scappata per rifarsi una vita e reincontrando dunque personaggi che aveva cercato di dimenticare. Riuscirà Lorenza a rendersi e a rivelarsi effettivamente una “utile pedina” per scovare l’esecutore materiale dell’omicidio della cantante, come il biglietto misterioso sembra voler suggerire?
Al di là del naturale “rebus” da risolvere per ogni giallo che si rispetti, “nessuna storia è mai finita”, come si sente dire Lorenza da Maximilian, il figlio di Hannelor Von Drier ,uno dei personaggi chiave della vicenda che arriva in Italia dalla Russia per trovare a sua volta la chiave del delitto. E così a Lorenza tocca “riprendere” il filo interrotto di molti rapporti umani lasciati in sospeso, tra i quali quelli con Matteo, l’ex – marito che ha fatto carriera nel giornalismo, Eleonora, la migliore amica di Lorenza che si è “Rifatta una vita” proprio con Matteo, e alcune autorità locali per cui la stessa Lorenza non ha mai provato grande simpatia. Ciò che traspare infatti, più che l’infittirsi della vicenda, è la gran quantità e qualità di rabbia, frustrazioni e rancore personale che Lorenza fa emergere lungo l’arco narrativo. Più che l’umanità, a salvarsi sono gli affetti degli animali, come la gatta di Lorenza “Stiffelin” e questo la dice lunga sulla fiducia di Lorenza nei confronti del prossimo. Del resto quella della protagonista è principalmente una lotta contro l’ipocrisia e la falsità, la ricerca disperata di una dimensione di affetto e sincerità all’interno di un ambiente anche lavorativo cui ella aveva cercato di dare tutta se stessa, ma da cui aveva ricevuto prevalentemente delusioni.
La “città” è quell’ambiente che , a conti fatti con la realtà ,risulta sempre differente e lontana dalle evocazioni utopiche di Tommaso Campanella ma anche di Italo Calvino; quella evocata dalla Magnoli è una “piccola città” dove accadono “cose normali” che paradossalmente fanno la soddisfazione e l’orgoglio professionale del Vicequestore Luciano Mauri, un austero professionista che non si fa certo scrupoli di sensibilità di fronte al carattere “fumino” di Lorenza, la quale non è certo “felice” del ruolo che qui le è forzatamente assegnato.
Ci sono Due elementi interessanti del racconto messi un po’ fra le righe : il primo è l’elemento della comparazione linguistica: L’autrice, forte del suo poliglottismo, in alcuni momenti compara il tedesco con l’italiano in chiave tendente all’ironico (ad esempio quando si confronta il tedesco “Gattin” ,cioè “moglie”, con i “suoni che evocano vaghe movenze feline” in italiano).
L’altra caratteristica è il modo di evocare il ritmo della vicenda. Nella terza di copertina si accenna al fatto che il “ritmo della tensione non è da thriller”; può essere, ma in compenso si percepisce un andamento più “sinuoso” e “raziocinante”, tipico da chi si capisce che predilige la verità e l’autenticità dei sentimenti umani più che l’ansia per arrivare alla “chiave” risolutiva del racconto; (non a caso molto spazio è dato ai dialoghi interiori e “non detti” di Lorenza) e in più in un paio di occasioni si accenna ad un “guardare ritmicamente” gli interlocutori (quando questi siano due); è una modalità interessante di dare una musicalità (o anche una teatralità “visiva” se si preferisce) alla narrazione.
E siccome nella musica e nel teatro esistono anche le pause, ecco accennare ad un silenzio che “non sta mai zitto”: il silenzio può dire più di tante parole, specialmente se notturno…come di notte si svolgono alcuni degli incontri fra Lorenza e Maximilian Stravinsky, il figlio della vittima…; in una notte, grazie a questa “pausa” di riflessione silenziosa, Lorenza rivede le sue “stelle spente” , ovvero gli affetti delusi e la sua mancata realizzazione nel lavoro. Ma evidentemente la stessa città che tanto aveva deluso Lorenza e da cui ella stessa era voluta fuggire…le instilla una riflessione amara quanto necessaria: Restare significa poter spiegare, cioè affrontare se stessi, riconoscere e assumersi le proprie responsabilità. Ed ecco il punto: Se un cadavere chiede di te…forse è , metaforicamente il TUO cadavere, quello dei fallimenti di ciò che saresti voluto essere e non sei stato. E non è detto che sia tutta colpa del destino , anche se a volte ci fa comodo pensarlo. Lorenza cercava l ‘”immortalità” giornalistica ( e forse la popolarità), e invece tornare sul luogo del “delitto” e del proprio “cadavere” è “restare sotto i riflettori”, che non sono quelli del successo professionale (o non necessariamente), ma quelli del proprio io da cui non si potrà mai fuggire.
L’unica evidente smagliatura nell’ordito del romanzo, complessivamente scorrevole e ben strutturato, ci pare il momento in cui, quando ormai i giochi sono fatti è il colpevole è rivelato, la narratrice Lorenza (o forse l’autrice Sara…) si lascia andare a una considerazione del tipo “Spesso nei film o nei libri accade che il colpevole (…) sia una persona che risulta antipatica sin dall’inizio (….) i buoni trionfano , i cattivi pagano(…) però non va sempre così…”. Come a dire che lo scrittore di gialli è sempre alla ricerca di una chiave risolutiva che risulti imprevedibile, nuova e “non già detta” rispetto a tutto ciò che sinora è già stato scritto…e fra le righe si percepisce un pensiero del tipo “Io invece son stato più originale del solito e ve lo sottolineo”. E un tratto come questo fa parte di quella categoria di elementi didascalici o che andrebbero sottintesi ,lasciando che sia il lettore ad Accorgersene o a giudicare se l’originalità c’è stata o meno da parte dell’autore (o dell’autrice).
Lorenza si congeda poi con una lettera alla sua gatta, come si diceva, l’unico interlocutore che non può tradire la persona umile, pura di cuore e desiderosa di contentezza e felicità come è Lorenza; una volta tornata al suo lavoro, forse, la protagonista riuscirà a trovare un po’ di pace anche nella modestia del suo prosaico lavoro, anche guardando la meraviglia di un paesaggio naturalistico raffigurato in un poster, magari accontentandosi di capire che ,come dice Eros Ramazzotti “Certi sogni son come le stelle: irraggiungibili, però quanto è bello alzare gli occhi e vedere che sono sempre là”.
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