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copertina gerry mottis fratelli neri

“FRATELLI NERI” di Gerry Mottis (ed. Armando Dadò, 2015)

Uno dei paradossi di certe opere letterarie  è di rivelarsi degli atti di grande coraggio –quasi rivoluzionario – perché vengono scritti con grande semplicità, umiltà, non molto oltre la mera descrizione dei fatti rappresentati e vanno nello stesso tempo a sfidare le prevedibili reazioni sociali contro “la fiera dei buoni sentimenti” (o “buonismo”, come si tende a dire oggi). Ci sembra che non potesse esserci momento più propizio e significativo per l’uscita di questo nuovo romanzo dello scrittore Svizzero – Grigionese Gerry Mottis “FRATELLI NERI”, ovvero la storia dei primi internati africani nella Svizzera Italiana durante la seconda guerra mondiale.

La vicenda trae spunto , come recita il sottotitolo, dall’internamento di alcuni soldati africani provenienti dalle colonie francesi in Africa , subito dopo l’8 settembre 1943; Essi vengono sistemati provvisoriamente all’interno del Collegio Sant’Anna di Roveredo , nel cantone Grigioni. Qua comincia una breve ma intensa avventura in una situazione di precarietà e incertezza del futuro; gli africani sono inevitabilmente sottoposti a un “confronto” con la civiltà Svizzera della Valle Mesolcina, ma anche con i profughi ebrei rifugiati nello stesso luogo, tra cui il commediografo Sabatino Lòpez (voce narrante della vicenda) e il poeta italiano Diego Valeri. In una situazione di “emergenza”, dove la guerra imperversa in Europa e il destino degli innocenti è in preda alla più totale aleatorietà ed incertezza, chiunque diventa “attore” della sorte propria e di quella degli altri personaggi, per la storia apparentemente “secondarii”. Le suore, i combattenti africani, i personaggi di uno sperduto paese della Valle Mesolcina, i poeti, le autorità locali…tutti accomunati dal corso degli eventi per cui si concretizza il monito Brechtiano , poi ripreso da Francesco De Gregori “LA STORIA SIAMO NOI!NESSUNO SI SENTA ESCLUSO”.

E il termine “attori” non è scelto a caso: L’io narrante della storia è un autore teatrale ,rifugiato in quanto ebreo insieme alla moglie nel ricovero “Immacolata Concezione” di Roveredo. Qui ,dai racconti di una suora, verrà a sapere la vicenda degli internati africani all’interno del Collegio Sant’Anna, avvenuta poco tempo prima. L’io narrante esordisce   dicendo “Non avevo mai osato mentire in vita mia”; (l’etimologia greca della parola “attore” è “Upokritès”, da cui l’Italiano “Ipocrita”); ma ora si vede costretto a usare un falso nome per sfuggire al rastrellamento nazista; verità e “maschera” vengono così a sovrapporsi per la necessità di sopravvivere. Del resto i “ruoli” ,nelle vicende qua narrate, sono tutti di VERITA’ e SOSTEGNO reciproco, ma il bello è che ognuno agisce con le proprie caratteristiche e le differenze (di etnia, cultura o anche di formazione professionale) costituiscono soltanto un arricchimento reciproco. I sentimenti umani sono invece il comune denominatore al di là di tali diversità.

Il difficile è combattere gli stereotipi banali che derivano dalla “paura” dell’altro o forse dalla “pigrizia” del non voler accogliere le potenzialità umane e culturali che da tali potenziali incontri possono derivare. O più semplicemente si preferisce usare il “diverso” come sfogo per le proprie frustrazioni. Emblematica è la figura della LENA, la paesanotta che non ha mai avuto troppa fortuna con gli uomini e allora si sfoga con i classici stereotipi razzisti contro “i negri”. Ma tali stereotipi non saranno molto lontani da quelli dei paesani montanari che , non appena vengono a sapere dell’internamento nel collegio, iniziano ad accusare le autorità locali di “trattar meglio loro di noi”, a sostenere che “quelli potrebbero ammazzare i nostri figli”…oppure che è “gente che viene a rubarci il lavoro”…proprio come succede ai tempi nostri. E’ la storia che si ripete, si direbbe. Forse però ,come dice in maniera un po’ indulgente  Suor Cherubina, una delle suore dell’Istituto , quella degli abitanti indigeni non è cattiveria ma solo “curiosità”, anche se gestita un po’ male nei confronti dei “fratelli neri”.

Ma c’è “salvezza” in tutto ciò? Mottis sembra dirci di sì.  E non si tratta di una salvezza “escatologica” ma semplicemente derivata da un cambio di prospettiva. Lo stesso Lòpez, come scrittore e in questo caso “ricercatore” dei fatti che va a raccontare,  dichiara di intraprendere la sua impresa narrativa come “passatempo letterario per sfuggire all’orrore crescente che si insinuava nei nostri cuori di esuli (…)”, quasi a definire la forza catartica della “parola” che vince sulla discriminazione e soprattutto sull’oblio del tempo, per tramandare la memoria. E’ significativo che a scrivere sia un DRAMMATURGO ,ossia qualcuno che scrive perché la parola sia non solo narrata ma anche AGITA  in teatro . Anche perché il linguaggio del CORPO ,da cui deriva l’azione concreta, a volte nella civiltà africana (ma in realtà in tutte le civiltà) è molto più eloquente del semplice verbo. Dove non arriva la LINGUA , ci si può intendere con la prossemica degli SGUARDI; la scansione delle azioni quotidiane che scorrono in maniera quasi monotona ,costante e rituale può essere messa in parallelo con il senso del ritmo ancestrale che si sviluppa da parte dei “fratelli neri” nel momento della partita di calcio , quando qualcuno accenna a un ritmo percussivo tipico delle loro danze.

Ma soprattutto nei momenti delle rappresentazioni teatrali che evocano situazioni che potrebbero essere per loro familiari non c’è da parte loro significativo accenno di reazione, solamente un’impassibilità che si ripete anche quando vengono loro date notizie di particolare rilievo o gravità: La loro è un’interiorità che può essere letta con piccoli cenni  microscopici del corpo, come anche gli sguardi colmi di gratitudine che sostituiscono il “grazie” verbale.

“Fratelli neri” sembra  dunque rappresentare una “prova” di confronto fra culture differenti , dove però le “differenze” (prima fra tutte quella di RELIGIONE) risultano essere fittizie, di convenzione o di comodo, o semplicemente delle mere casualità( quasi alla stregua del colore della pelle) e ciò è tanto più chiaro nel momento in cui il sacerdote invita ognuno a pregare nella propria lingua e secondo i propri parametri. A volte si accetta di “sottomettersi” alle regole di un’altra religione ma soltanto per sentirsi “interiormente” più vicini all’appartenenza del tuo prossimo; è il caso del rifugiato Sebastién che vuole farsi battezzare secondo il rito cristiano per unirsi spiritualmente a Fernanda, l’infermiera che lo cura amorevolmente , per “sublimare” la relazione di amore che con lei non potrà mai avere perché, secondo i ruoli convenzionali, ha “passato l’età da marito, ossia i 30 anni.  Ma la cultura arriva soprattutto dove gli altri parametri civili non possono arrivare . Il poeta Diego Valeri , ebreo a sua volta internato, è chiamato – tra l’altro dalle stesse autorità locali che della “cultura” hanno evidentemente un concetto molto relativo e opportunistico – a tradurre dal Francese per conto degli internati che solo quella lingua parlano, anche perché , secondo suddette autorità, “in quanto letterato ebreo , avrà tutto il tempo del mondo…e figuriamoci se riuscirà a parlar loro di poesia”. E invece, contrariamente a tale pensiero, la cultura è per TUTTI, anche per il popolo del luogo: Ciò che unisce non è l’economia (come sarebbe spontaneo pensare) ma LA CULTURA perché TUTTI VOGLIONO VEDERE la rappresentazione teatrale che in teoria è pensata solo come “svago” per gli africani; la funzione catartica di queste narrazioni(come si accennava prima) riguarda e accomuna tutti . E quando verso la fine sembra esserci lo scontro quasi “etnico” fra la popolazione ospite e quella residente, ancora una volta interviene l’arte a “salvare” la situazione: Ancora Diego Valeri emerge sopra la folla e con la declamazione di una sua poesia “ spiazza” tutti e riconcilia “ancestralmente” gli animi di civiltà diverse nelle modalità ma simili nella naturalità del ciclo vitale.

Scontro o incontro di civiltà, potremmo domandarci riandando con la mente al romanzo dello scrittore Amara Lakhous “Scontro di civiltà per un ascensore a Piazza Vittorio”?. Al lettore l’ardua sentenza. Un libro che non esiteremmo a definire ESSENZIALE per capire le origini di alcune problematiche e conflittualità non necessariamente circoscritte ai luoghi e alle popolazioni di cui qui si racconta, ma che trascende nella asciuttezza e semplicità delle vicende narrate , la contingenza di un passato la cui universalità spazio – temporale è di semplice e immediata percezione e che consiglieremmo a chiunque voglia approfondire la propria sensibilità civile , ma soprattutto ad alcuni professionisti politicanti molto abili nella comunicazione più verso la “pancia” che verso la “testa” di quelli che essi sono convinti che “testa” non abbiano ma che servono a mantenerli su certe “poltrone”.

L.M.

www.gerry-mottis.ch

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innamorata di un cantante copertina un po piu grande

“INNAMORATA DI UN CANTANTE” di Francesca Orelli (ed.Leucotea,2015)

Esistono vari livelli di realizzazione personale, mancata o compiuta che sia. Vi si può aspirare nel lavoro, nelle umane passioni, anche nei vizi personali. A chi scrive, il mondo della musica rock  pare per eccellenza il mondo delle realizzazioni incompiute: per quanto a uno sguardo superficiale possa apparire un universo di energia, successo e “ribellione” gridata, in realtà c’è sempre un che di inappagato che serpeggia in tutto ciò che comporta l’esserci dentro. Queste sono le sensazioni centrali che emergono dalla lettura della terza opera letteraria della ticinese Francesca Orelli “Innamorata di un cantante”, nuovo capitolo della saga “I love rock’n’roll” di cui rappresenta il secondo capitolo in ordine di pubblicazione, in realtà il primo in ordine cronologico. Esso, per spirito e contenuto, si discosta solo in parte dal precedente “Nelle mani della ribelle” (di cui dovrebbe costituire il “prequel”), essendo anch’esso ambientato nel mondo dell’Hard Rock e in particolare nelle vicende dell’immaginario gruppo dei Blackshark, rock band di fama e successo mondiale. Dietro ai personaggi di volta in volta protagonisti dei (sinora) due capitoli di tale “novela” in realtà non è difficile riconoscere i componenti  in versione “stilizzata” di una nota rock band ticinese di cui la Orelli si dichiara fan accanita da sempre.

La vicenda vede come protagonisti Daria Vismara e Continua a leggere

arte

“PENSIERI PER L’ARTE” di Marta Lock (ed.Monetti Ragusa,2015)

 

“SINESTESIA”: ecco una parola chiave per comprendere il futuro (e anche il presente) dell’arte. O meglio DELLE ARTI. L’unione di tipologie diverse di forme espressive sembra sempre più  essere una delle carte vincenti per prodotti interessanti e in certi casi originali e di energia innovativa.

E di sinestesie si parla proprio in questa opera della scrittrice Marta Lock. “Pensieri per l’arte” è un’operazione curiosa, costituita essenzialmente da 150 aforismi a suggello di altrettante opere d’arte di artisti vari.  Lo stile aforistico è una delle carte vincenti di Marta, scrittrice talentuosa e da anni ormai sulla cresta dell’onda. La raccolta dei suoi “pensieri della sera”, che quotidianamente redige, è reperibile sul suo sito www.martalock.net ed è in costante aggiornamento. Questo libro mostra dunque la capacità di Marta di tradurre nel linguaggio della poesia le sensazioni spesso difficilmente “decodificabili” che un quadro trasmette all’utente medio comune .

Torna alla mente la difficoltà di coesistenza di codici fra tipi diverse di arte, sintetizzata da Frank Zappa nella famosa battuta: “Parlare di musica è come ballare sull’architettura!” Ebbene, la sensazione immediata che se ne trae sin dalle prime pagine – e che viene confermata sino in fondo – è che Marta riesca nella non semplice operazione di “chiarire” il linguaggio dell’arte contemporanea attraverso le corde del cuore, più che di quelle dell’intelletto. Si tratti di uno sguardo di donna perplesso e perso all’orizzonte, di un ritratto di un uomo con la pipa da vedere tra le righe in una composizione quasi “mosaicale” o di un paesaggio invernale innevato… sono le parole di Marta a svolgere la funzione “necessaria e complementare” per rendere appieno l’essenza del dipinto. Non è un’operazione didascalica e didattica quella della Lock, ma una personalissima rielaborazione che si traduce in riflessioni su aspetti essenziali della vita in cui tutti possiamo ritrovarci.

Difficile selezionare le opere più significative, perché tutte le opere e i conseguenti aforismi hanno una loro attrattiva e un fascino che induce a conseguenti riflessioni; come non restare meditabondi di fronte agli sguardi intensi di un bambino o di una ragazza o di una donna di colore o di due semplici occhi di ragazza… Ad esempio nel “Viaggio Della speranza” della pittrice Angela Procopio, riproducente un bambino che guarda timoroso e speranzoso da una fessura, Marta legge la possibilità dell’evoluzione di un piccolo sogno verso un grande sogno…che si rivela anche umanitario. Particolarmente avvolgenti e struggenti i suggelli a commento di scene della natura, dove spesso entrano prepotentemente in gioco sentimenti come il rapporto con l’altro, l’attesa di un “dopo” che auspichiamo migliore, il fluire del tempo.

A volte c’è spazio anche per musica e musicalità: nel dipinto di Malù Mansonetti viene riprodotto un chitarrista a tinte variamente colorate e vagamente impressioniste dove Marta ci ricorda che “Il mondo è una tavolozza di colori….” E forse la musica ci aiuta a coglierne i vari aspetti. Ma è forse soprattutto nell’arte puramente astratta che la Lock ci sorprende di più, riuscendo a tradurre col suo cuore di donna sensibile immagini che spesso all’occhio comune sfuggono per la loro difficile decifrabilità. E’ proprio in questi casi che Marta ci “prende per mano” e ci fa entrare nei misteri  della vita che a volte è rappresentabile con dei gesti istintivi (nella pittura come nella musica ma  anche nel teatro) e che fra le righe va letta come la stessa scrittrice ci disvela, spesso proponendoci delle autentiche perle di saggezza. Per una maggioranza di casi in cui le frasi di Marta si presentano come delle autentiche “rivelazioni” sul mondo e sul nostro prossimo.

A volte si ha l’impressione che qualche pensiero sia un po’ più contorto e cervellotico rispetto agli altri. Ma ciò  rappresenta il bello di questa carrellata di immagini e pensieri che, a parere di chi scrive, può essere riassunta in uno dei più riusciti aforismi del volume, posto a commento del dipinto di Melchor Terrero “La cita”: “Le persone non sono mai ideali; sono semplicemente imperfette, persone reali i cui difetti si incastrano perfettamente coi nostri”. Semplicemente grazie, Marta!

www.martalock.net

Per acquistare il libro :http://www.ibs.it/ser/serfat.asp?site=libri&xy=pensieri+per+l%27arte

 

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“IL FONDO DELLO SPETTACOLO” di Davide Colavini (ed.Arcipelago, 2014)

L’ artista è qualcuno che cerca la sua identità come rovistando tra le macerie della prosaicità quotidiana…proprio come il cabarettista Renato Cavazza…alter ego del poliedrico e instancabile Davide Colavini che ci presenta la sua opera prima “IL FONDO DELLO SPETTACOLO”,ovvero un“viaggio” all’interno della vita di un uomo in fondo normale, come tanti..che però “rifiuta “ la sua “normalità.  La ricerca dell’identità autentica in fondo sembra essere imprescindibile da quella di un’arte , anche perché è chiaro sin da subito che, come viene ripetuto nel corso del testo, “recitare” non è un’azione che si fa solo sul palco, ma nella vita di tutti i giorni; e la si ritrova nelle relazioni interpersonali della famiglia e degli affetti come nel lavoro.

Sin Dalle prime battute il testo  è fulmineo e al vetriolo come lo stile medio dei testi dello “stand up comedian” (ossia del comico) : “STOP NON CI SIAMO CHIARIAMOCI LE IDEE!”…nelle parole di un regista di spot pubblicitari vi è l’invito dell’artista frustrato a chiarirsi…in poche battute troviamo  già la comicità sottile, e non dichiarata : il povero artista squattrinato (Renato),personaggio secondario nello spot pubblicitario  a confronto con il protagonista dello spot, il calciatore del momento, divo milionario scazzato che è strapagato in confronto all’artista che vuole sfondare ma deve fare i conti in tasca a se stesso con le umiliazioni conseguenti…

 

Renato ricorda i suoi sogni artistici di ragazzino: sogna di diventare una rockstar… mentre ascolta ciò che per lui è  il massimo della trasgressione, ovvero  Edoardo Bennato. Ma c’è anche una critica comica ai miti che accompagnano ogni adolescente…alcuni “miti” dividono anziché unire…come BOB DYLAN che “essendo di un’altra generazione” rispetto a quella di Renato…che è invece più “tipo da U2”…può causare anche la fine di uno dei tanti “amorazzi” giovanili.  Renato E’ Malato di protagonismo come i protagonisti dei talent show attuali ,non sa che aspirazione ha concretamente….ma il suo ruolo è RECITARE in ogni senso e declinazione…è un sottile e sottinteso atto di accusa alla società che lo rifiuta proprio mentre lui è quello che si DOVREBBE ESSERE ma lui vuole essere riconosciuto per questo…Del resto negli anni ’70 e un po’ anche negli anni ’80 salire sul palco e limitarsi ad essere se stessi  era un elemento trasgressivo a confronto dei divi “costruiti su misura” (e così si spiegava il successo,ad esempio, dei cantautori). Ma come ogni bravo artista che si rispetti… siccome di arte e spettacolo non si campa, bisogna nel frattempo passare attraverso mille mestieri…il rappresentante di commercio, il verniciatore,il grafico…e tra un’esperienza lavorativa e mille tentativi di “sfondare nel mondo dello spettacolo…un bel  po’ di situazioni e “avventure” sentimentali.

E’ un mondo, quello di Renato Cavazza, fatto di Illusioni che nascono all’improvviso e sfioriscono come niente….I LAVORI sono come gli AMORI..quasi non c’è differenza per la loro genealogia…. Sembrano uscire situazioni comiche dalla banalità di ogni lavoro che non riesce mai ad essere pienamente appagante,sia in quelli fatti per campare, sia nelle situazioni del cabaret fatte di situazioni fatiscenti, locali mal frequentati o impresari che si spacciano per finti amici e poi scompaiono nel nulla a volte senza neanche saldare il compenso per l’artista…paradossalmente sembra che il modo di “essere” del cabarettista” comporti proprio il fatto di essere degli inetti al lavoro e alla vita di coppia che però viene vista con occhio pietoso! (Vedi ad esempio la storia con Katia , lo speakeraggio in radio come alternativa e valvola di sfogo..fino a quando non capita l’occasione dei provini allo storico “Zelig”).  E non manca, fra le righe il mai risolto Dibattito sulla “soggettività” della comicità, …cosa fa ridere e cosa no?

 

Il romanzo risulta molto fulmineo e colorito nel passare da una situazione all’altra…una banale e prosaica, l’altra penosamente sentimentale….come lo stile da stand up comendians…passando per la fatica di sopravvivere …e già nel periodo narrato la CRISI è la parola imperante…accuse sottili che saltano fuori a ogni piè sospinto… C’è anche il riferimento alla fine di un mondo e ad ciclo politico che determina la fine del benessere economico retto su un sistema. (Vedi anche i riferimenti alla fidanzata “berlusconiana” che gli troverebbe un posto presso suo padre ma LUI non vuole…confronti con mentalità di vita diverse….ma sempre affrontate in modo astratto e poco pratico).

il TEMPO che scorre viene così neutralizzato in un’attualizzazione di situazione che annulla le distanze fra ieri e oggi…la politica è un eterno ritorno di cicli…la “crisi” economica è sempre un alibi e una scusante per “tagliare” teste a ogni piè sospinto, qualsiasi ruolo lavorativo si assuma.

Le donne e il cabaret: a volte sono 2 facce della stessa medaglia… il cabarettista a volte ci fa la figura del “banale”…del trasandato nella vita…ma è il ritmo “comico” e rapido della narrazione che riscatta la banalità della vita del protagonista da cui sembra non esserci scampo…sembra quasi che il comico debba essere per forza di cose immaturo per riuscire bene nel suo lavoro passando necessariamente però dagli insuccessi, anche perché  “il cabarettista deve vivere” per poter fare il suo lavoro e trarre spunto dalla vita reale. A volte sono presenti indicazioni tecniche del mestiere  teatro ,quasi a voler conferire una nobilitazione del mondo approssimativo e naif del cabaret ,come ad esempio la“QUARTA PARETE” teatrale.

LA Massima umanità dell’uomo/artista è rintracciabile nei momenti in cui se ne vanno i parenti stretti ma l’arte riesce a vincere perché lo spettacolo “Ho bisogno di farlo lo stesso”, (in occasione della morte del padre è questa la reazione nobile di Renato); forse la differenza con un attore sta che l’attore è più diretto e si prende più sul serio, un cabarettista cerca di nascondersi dietro le banalità dell’uomo comune e banale …e questo spartiacque della morte improvvisa della madre si traduce in una violenta presa di posizione antifideistica del protagonista che rifiuta la compagnia di un Dio consolatore. Ma se il cabarettista ,nella sua follia della disperazione ..finisce col credere alle poche cose che gli restano..alla fine non risulta un “perdente” ma più un “perso”…che stenta a trovare la sua strada..che alla fine troverà con una conclusione però un po’ “favolistica” e anche arrogante: Lui diventa una celebrità mandando a quel paese il suo pubblico che paradossalmente proprio per quello comincia a idolatrarlo…come i vari Sgarbi di turno che diventan famosi e acquisiscono fascino proprio perché stronzi.

Il romanzo , che forse come unico difetto ha il fatto di presentare un po’ troppe continue situazioni analoghe fra loro, creando una sorta di effetto tipo  “tira e molla” , presenta alla fine la classica “chiusura del cerchio” con l’inversione dei ruoli: con il calciatore incontrato all’inizio del romanzo che ora è fallito e va a trovare Renato alla sua festa di compleanno e lui gli ricambia il “favore” del sottilmente beffardo  “te si che vai bene”..come aveva fatto lo stesso calciatore in passato nei confronti di Renato.. Resta una domanda inevasa: Ma il  l’autore è arrabbiato col suo mondo ,con se stesso o con cosa? (L.M.)

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“COME UN SASSO NEL LAGO” di Maria Fedele (“il cilegio”,2014)

Copertina "Come un sasso nel lago" di Maria Fedele

Copertina “Come un sasso nel lago” di Maria Fedele

come_un_sasso_nel_lagoSCELTA_BIANCA

“Dove abita l’onesta’?” o meglio “quale luogo E’ ABITATO dall’onesta’?”. E’ questa la domanda che serpeggia sottilmente e “subdolamente” nel romanzo della scrittrice Maria Fedele “Come un sasso nel lago”. Dietro una fabula apparentemente costruita con ingredienti abbastanza consueti in realtà è presente fra le righe una ricerca spietata e affannosa della propria identità intrinsecabilmente legata agli affetti che circondano la protagonista, quasi tutti tratteggiati con caratteristiche, per un verso o per l’altro, problematiche. La vicenda è quella di Claudia (forse alter ego dell’autrice), donna separata dal marito Giorgio e con a carico due figlie, che sta cercando di vivere una nuova vita divisa tra il lavoro, la sua famiglia e le amicizie. A farle da contraltare la presenza della Zia Rosetta, affetta da problemi psichici, che ritiene di essere destinata alla missione di salvare le vite, da quando da giovane di fatto era stata salvatrice di un bambino abbandonato che aveva chiamato Giacomo e che poi si era vista sottrarre dai servizi sociali. La separazione problematica dal marito Giorgio, banale uomo avventuriero e “piacione” che aveva a suo tempo conquistato Claudia forse più per la sua apparenza e per le sue facolta’ prosaiche, viene turbata dalla comparsa (o meglio “ricomparsa”) di Gaetano, conosciuto da Claudia anni addietro come insegnante di canto di sua figlia e ora maestro di yoga. E’ qui che l’intreccio si complica e si infittisce…in un continuo gioco di rimandi di memoria e di accadimenti come “scherzi del destino” che porta Claudia e Gaetano a reincontrarsi e a separarsi continuamente nella ricerca della definizione di un rapporto non chiaro ma anelato fra i due.
L’arte come “catarsi” è l’elemento vincente della narrazione: l’autrice recupera le sue esperienze con le discipline artistiche e le “proietta” all’interno del racconto come elementi centrali motori dello sviluppo della vicenda: vedi ad esempio la Voce di Gaetano che esce col suo canto dal cd, come pure il canto che torna come elemento fondante nel racconto del viaggio in Africa che Claudia ritrova descritto nel suo diario, insieme alla danza folkloristica come disciplina che UNISCE, unitamente all’arte del dialogo, che invece “da noi italiani solitamente è scarso” come annota Claudia. Poi c’è La voce della stessa Zia Rosetta che terrebbe testa alle voci africane. E infine la multidisciplinarietà delle arti varie (pittura, poesia, musica, recitazione) dove l’Arte celebra il suo un po’ autoreferenziale trionfo nella festa organizzata da Claudia per la sua amica artista. Il corpo e la voce svolgono dunque una funzione di “rivelazione” anche quando ci si reincontra grazie alla disciplina dello yoga.
I momenti migliori della narrazione sono forse da ritrovare fra le righe e fra i concetti, oltre all’arte è evidente la funzionalità del CORPO e dello spazio da esso ABITATO (vocabolo che ritorna anche nel titolo di uno dei capitoli “la donna abitata”): l’”abitare” come ricerca di un appiglio e della propria onestà reciproca fra esseri umani può forse essere tanto la causa che il fine ultimo della ricerca e della risoluzione dei rapporti umani che stentano a trovare una precisa definizione. Purtroppo la vera soluzione sembra essere una sorta di “salto generazionale”, se la vera bontà pura e riconoscibile è quella che lega una donna a un figlio adottato e solo successivamente rivisto fugacemente dopo tanti anni, e invece quella tra madre e due figlie “vere” (Claudia e le sue figlie) è affetto autentico ma più di routine, senza nulla di particolarmente spumeggiante, e non a caso Claudia mostra più empatia con la Zia (sua controparte “scomoda” da cui pure deve difendersi perché le ricorda le parti di sé che lei tenderebbe più a respingere, e nello stesso tempo potenzialmente migliori).
Un po’ penalizzanti invece sono le parti più descrittive come quella del diario in Africa, eccessivamente lunga, o le parti sulla descrizione di sensazioni interne riguardo alla separazione dal marito; nelle parti più razionali dove si medita sulla “sincerità reciproca del detto e del non detto“ o del “compromesso per non mentire…” l’autrice rivela comunque il suo lato più raziocinante che determina una sorta di “antiteatralità “ di fondo nel senso del “ritmo” artistico del testo. Questa “antiteatralità” però viene riscattata nei momenti della descrizione della pratica dello yoga che invita il lettore ad essere accompagnato dal respiro che può fargli “prendere fiato” necessario per capire e soffermarsi, atto che però l’autrice sembra vedere respinto dalle persone che le stanno intorno e che non dicono “Neanche una parola sul passato”… Ma serve il passato per il futuro? Maria (Claudia) sembra “urlarci” di sì!
Il momento più sublime del testo è il DIALOGO CON LA MAGNOLIA: momento forse centrale del racconto: in un fittizio dialogo con questa pianta Claudia “smuove” i suoi dubbi e le sue domande irrisolte, ma la frase fatale è quella della pianta che sostiene di CAPIRE L’INFELICITA’ di Claudia da come ella si “muove nello spazio senza occuparlo (ossia “Abitarlo”) veramente” (ossia “vincendo” sull’antiteatralità di Claudia/Maria): ma se si è abitati, la “fase abitata” è essere abitati dalla paura e forse dalla pazzia in parallelo con la zia Rosetta (che parlava da sola e sentiva le Voci a sua volta):arte e natura dunque, rispecchiate nella pianta.
Alla fine però Claudia vince. Vince con il trionfo dell’arte. Vince paradossalmente con la partenza della Zia che amava, ma rispetto alla quale Claudia voleva essere migliore e ce la fa, con l’allontanamento definitivo di Giorgio (persona banale e negativa). Vince vivendo una situazione prosaica e imbarazzante con Gaetano: trovarsi in mezzo al vomito tra il water e il bidet, ma forse proprio per questo più vera e autentica. Claudia vince con la sua autenticità di donna sensibile e intelligente e la forza “scomoda” di saper tirare i “sassi nel lago” che emanando i cerchi concentrici dell’empatia dalla quale ora accetta di essere investita accettando il mondo e se stessa.

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(L. M. 9 maggio 2015)

Questo articolo è stato pubblicato in OCCHIO CRITICO il 9 maggio 2015. Modifica