Uno dei paradossi di certe opere letterarie è di rivelarsi degli atti di grande coraggio –quasi rivoluzionario – perché vengono scritti con grande semplicità, umiltà, non molto oltre la mera descrizione dei fatti rappresentati e vanno nello stesso tempo a sfidare le prevedibili reazioni sociali contro “la fiera dei buoni sentimenti” (o “buonismo”, come si tende a dire oggi). Ci sembra che non potesse esserci momento più propizio e significativo per l’uscita di questo nuovo romanzo dello scrittore Svizzero – Grigionese Gerry Mottis “FRATELLI NERI”, ovvero la storia dei primi internati africani nella Svizzera Italiana durante la seconda guerra mondiale.
La vicenda trae spunto , come recita il sottotitolo, dall’internamento di alcuni soldati africani provenienti dalle colonie francesi in Africa , subito dopo l’8 settembre 1943; Essi vengono sistemati provvisoriamente all’interno del Collegio Sant’Anna di Roveredo , nel cantone Grigioni. Qua comincia una breve ma intensa avventura in una situazione di precarietà e incertezza del futuro; gli africani sono inevitabilmente sottoposti a un “confronto” con la civiltà Svizzera della Valle Mesolcina, ma anche con i profughi ebrei rifugiati nello stesso luogo, tra cui il commediografo Sabatino Lòpez (voce narrante della vicenda) e il poeta italiano Diego Valeri. In una situazione di “emergenza”, dove la guerra imperversa in Europa e il destino degli innocenti è in preda alla più totale aleatorietà ed incertezza, chiunque diventa “attore” della sorte propria e di quella degli altri personaggi, per la storia apparentemente “secondarii”. Le suore, i combattenti africani, i personaggi di uno sperduto paese della Valle Mesolcina, i poeti, le autorità locali…tutti accomunati dal corso degli eventi per cui si concretizza il monito Brechtiano , poi ripreso da Francesco De Gregori “LA STORIA SIAMO NOI!NESSUNO SI SENTA ESCLUSO”.
E il termine “attori” non è scelto a caso: L’io narrante della storia è un autore teatrale ,rifugiato in quanto ebreo insieme alla moglie nel ricovero “Immacolata Concezione” di Roveredo. Qui ,dai racconti di una suora, verrà a sapere la vicenda degli internati africani all’interno del Collegio Sant’Anna, avvenuta poco tempo prima. L’io narrante esordisce dicendo “Non avevo mai osato mentire in vita mia”; (l’etimologia greca della parola “attore” è “Upokritès”, da cui l’Italiano “Ipocrita”); ma ora si vede costretto a usare un falso nome per sfuggire al rastrellamento nazista; verità e “maschera” vengono così a sovrapporsi per la necessità di sopravvivere. Del resto i “ruoli” ,nelle vicende qua narrate, sono tutti di VERITA’ e SOSTEGNO reciproco, ma il bello è che ognuno agisce con le proprie caratteristiche e le differenze (di etnia, cultura o anche di formazione professionale) costituiscono soltanto un arricchimento reciproco. I sentimenti umani sono invece il comune denominatore al di là di tali diversità.
Il difficile è combattere gli stereotipi banali che derivano dalla “paura” dell’altro o forse dalla “pigrizia” del non voler accogliere le potenzialità umane e culturali che da tali potenziali incontri possono derivare. O più semplicemente si preferisce usare il “diverso” come sfogo per le proprie frustrazioni. Emblematica è la figura della LENA, la paesanotta che non ha mai avuto troppa fortuna con gli uomini e allora si sfoga con i classici stereotipi razzisti contro “i negri”. Ma tali stereotipi non saranno molto lontani da quelli dei paesani montanari che , non appena vengono a sapere dell’internamento nel collegio, iniziano ad accusare le autorità locali di “trattar meglio loro di noi”, a sostenere che “quelli potrebbero ammazzare i nostri figli”…oppure che è “gente che viene a rubarci il lavoro”…proprio come succede ai tempi nostri. E’ la storia che si ripete, si direbbe. Forse però ,come dice in maniera un po’ indulgente Suor Cherubina, una delle suore dell’Istituto , quella degli abitanti indigeni non è cattiveria ma solo “curiosità”, anche se gestita un po’ male nei confronti dei “fratelli neri”.
Ma c’è “salvezza” in tutto ciò? Mottis sembra dirci di sì. E non si tratta di una salvezza “escatologica” ma semplicemente derivata da un cambio di prospettiva. Lo stesso Lòpez, come scrittore e in questo caso “ricercatore” dei fatti che va a raccontare, dichiara di intraprendere la sua impresa narrativa come “passatempo letterario per sfuggire all’orrore crescente che si insinuava nei nostri cuori di esuli (…)”, quasi a definire la forza catartica della “parola” che vince sulla discriminazione e soprattutto sull’oblio del tempo, per tramandare la memoria. E’ significativo che a scrivere sia un DRAMMATURGO ,ossia qualcuno che scrive perché la parola sia non solo narrata ma anche AGITA in teatro . Anche perché il linguaggio del CORPO ,da cui deriva l’azione concreta, a volte nella civiltà africana (ma in realtà in tutte le civiltà) è molto più eloquente del semplice verbo. Dove non arriva la LINGUA , ci si può intendere con la prossemica degli SGUARDI; la scansione delle azioni quotidiane che scorrono in maniera quasi monotona ,costante e rituale può essere messa in parallelo con il senso del ritmo ancestrale che si sviluppa da parte dei “fratelli neri” nel momento della partita di calcio , quando qualcuno accenna a un ritmo percussivo tipico delle loro danze.
Ma soprattutto nei momenti delle rappresentazioni teatrali che evocano situazioni che potrebbero essere per loro familiari non c’è da parte loro significativo accenno di reazione, solamente un’impassibilità che si ripete anche quando vengono loro date notizie di particolare rilievo o gravità: La loro è un’interiorità che può essere letta con piccoli cenni microscopici del corpo, come anche gli sguardi colmi di gratitudine che sostituiscono il “grazie” verbale.
“Fratelli neri” sembra dunque rappresentare una “prova” di confronto fra culture differenti , dove però le “differenze” (prima fra tutte quella di RELIGIONE) risultano essere fittizie, di convenzione o di comodo, o semplicemente delle mere casualità( quasi alla stregua del colore della pelle) e ciò è tanto più chiaro nel momento in cui il sacerdote invita ognuno a pregare nella propria lingua e secondo i propri parametri. A volte si accetta di “sottomettersi” alle regole di un’altra religione ma soltanto per sentirsi “interiormente” più vicini all’appartenenza del tuo prossimo; è il caso del rifugiato Sebastién che vuole farsi battezzare secondo il rito cristiano per unirsi spiritualmente a Fernanda, l’infermiera che lo cura amorevolmente , per “sublimare” la relazione di amore che con lei non potrà mai avere perché, secondo i ruoli convenzionali, ha “passato l’età da marito, ossia i 30 anni. Ma la cultura arriva soprattutto dove gli altri parametri civili non possono arrivare . Il poeta Diego Valeri , ebreo a sua volta internato, è chiamato – tra l’altro dalle stesse autorità locali che della “cultura” hanno evidentemente un concetto molto relativo e opportunistico – a tradurre dal Francese per conto degli internati che solo quella lingua parlano, anche perché , secondo suddette autorità, “in quanto letterato ebreo , avrà tutto il tempo del mondo…e figuriamoci se riuscirà a parlar loro di poesia”. E invece, contrariamente a tale pensiero, la cultura è per TUTTI, anche per il popolo del luogo: Ciò che unisce non è l’economia (come sarebbe spontaneo pensare) ma LA CULTURA perché TUTTI VOGLIONO VEDERE la rappresentazione teatrale che in teoria è pensata solo come “svago” per gli africani; la funzione catartica di queste narrazioni(come si accennava prima) riguarda e accomuna tutti . E quando verso la fine sembra esserci lo scontro quasi “etnico” fra la popolazione ospite e quella residente, ancora una volta interviene l’arte a “salvare” la situazione: Ancora Diego Valeri emerge sopra la folla e con la declamazione di una sua poesia “ spiazza” tutti e riconcilia “ancestralmente” gli animi di civiltà diverse nelle modalità ma simili nella naturalità del ciclo vitale.
Scontro o incontro di civiltà, potremmo domandarci riandando con la mente al romanzo dello scrittore Amara Lakhous “Scontro di civiltà per un ascensore a Piazza Vittorio”?. Al lettore l’ardua sentenza. Un libro che non esiteremmo a definire ESSENZIALE per capire le origini di alcune problematiche e conflittualità non necessariamente circoscritte ai luoghi e alle popolazioni di cui qui si racconta, ma che trascende nella asciuttezza e semplicità delle vicende narrate , la contingenza di un passato la cui universalità spazio – temporale è di semplice e immediata percezione e che consiglieremmo a chiunque voglia approfondire la propria sensibilità civile , ma soprattutto ad alcuni professionisti politicanti molto abili nella comunicazione più verso la “pancia” che verso la “testa” di quelli che essi sono convinti che “testa” non abbiano ma che servono a mantenerli su certe “poltrone”.
L.M.