Archivio della categoria: OCCHIO CRITICO – rubrica di recensioni

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“VINDICA TE TIBI” di Raul Londra (ed. Il ciliegio, 2014)

“La miglior vendetta è il perdono”. E’ un vecchio adagio che non sembra adattarsi allo spirito frizzante e un po’ “pulp” di Raul Londra, giovane scrittore che ci da un saggio delle sue capacità nella Raccolta “Vindica te tibi”, ovvero quattro storie di vendetta. Nell’arco di 4 racconti legati fra loro ,come dice il titolo, da un comune denominatore tipico delle più viscerali pulsioni umane, l’autore ci traccia un desolato e desolante quadro di un’umanità che vuole riscattarsi da situazioni per aspetti molto diversi di svantaggio o inferiorità.

L’idea non scontata di questo “filo rosso” costringe il lettore a confrontarsi - senza velate ipocrisie - col proprio ego e le proprie contraddizioni. E non si tratta, sembra dirci l’autore, di deridere o esaltare i “buoni sentimenti” che fanno parte anche del nobile essere. Semplicemente di accostarli anche alla parte più emotivamente istintiva che può apparire cattiva e bestiale ma è comunque parte di noi.

La raccolta si compone di 4 racconti intitolati “EROE”, “DOMINA”, “SPORCHI AFFARI A PREZZI STRACCIATI” e “ISTINTO ANIMALE”. Nel primo, “EROE”, vediamo il protagonista, di nome Jacob, un ragazzo americano di famiglia problematica, con padre sempre ubriaco e la madre che cerca di rifarsi una vita. Il protagonista Jacob si rivela risoluto nel cambiare il suo destino e risolutivo in alcune situazioni difficili Qui l’”eroe” è un assassino per vendetta personale: Jacob uccide Boggs , padre della sua fidanzata Sharon, perché non vuole che i figli di lui e la ex moglie subiscano quello che ha subito lui, Jacob, da suo padre. E nel colloquio con l’investigatrice Lockart si trae il filo della questione. La detective è lineare nella sua logica: secondo quest’ultima non si può, non si DEVE uccidere per vendetta, ma come ribatte Jacob: la detective non avrebbe premuto il grilletto per ammazzare Boggs perché non è nei suoi principi e l’avrebbe lasciato andare permettendogli così di compiere altri crimini. Un po’ didascalicamente conclude con la domanda “Chi è il vero mostro?”(Jacob o l’investigatrice?). L’autore pare prendere le parti del protagonista. Ma lascia irrisolta la questione se la vendetta sia lecita fino all’estreme conseguenze, come estremo è tutto ciò che fa Jacob: Bruciare il garage dove sta suo padre, ucciderlo con la benzina, operare nel corpo dei pompieri per cercare delle risoluzioni estreme anche in un paese dove non succede mai niente: Jacob è un SOVVERTITORE. Ma resta aperta una atavica questione: solo i cattivi sono i sinceri ed autentici? I buoni sono sempre e per forza “buonisti”? L’eroe è per forza violento?

 

In “DOMINA” un amore è causa di un suicidio; uno psichiatra è chiamato a “decodificare” il difficile caso di un ragazzo che annuncia le sue intenzioni che porta a termine al termine di una lettera in cui spiega in maniera poco chiara le sue ragioni. Qui il “plot” narrativo è un po’ debole …molto didascalici e ripetitivi alcuni passaggi (come già nel racconto precedente). In compenso c’è l’elemento della “città”, che si rivela centrale nel finale :”Ogni città sorge e cade così come l’amore e la vendetta”. Ossia: Quando una città sorge e cade, è la nascita e la fine di una civiltà. Il parallelo si rivela qui: la vendetta è il dolore che la ragazza che ha lasciato il protagonista dovrà affrontare dopo la sua dipartita per suicidio; ma lil ragazzo protagonista che appare per certi aspetti il più debole, in realtà ribalta ,con la sua “vendetta”,  le posizioni : Egli muore ma si ritiene riscattato perché invece ella resterà in vita ma soffrirà per sempre

 

 

Nel racconto “SPORCHI AFFARI FATTI A PREZZI STRACCIATI” il senso di vendetta si accompagna alla crescita anagrafica e alla scalata sociale del protagonista, ancora un ragazzo americano. Quella che all’inizio appare essere un’umiltà si rivela in realtà l’altra faccia dell’arrivismo. Questo lo porterà da una condizione pressoché normale di famiglia di medie condizioni sociali a una posizione di massimo potere imprenditoriale che lo porterà addirittura a trovarsi nella condizione di dover UCCIDERE a fin di bene. Doug (questo il nome del protagonista) sviscera il suo percorso verso la “vittoria” in una serie di continui riscatti a sfondo anche sociale: la sua posizione di uomo di colore , all’epoca dei fatti ancora difficile in America, da cui appare determinato e forte, nelle sue peripezie viene a suo modo nobilitata grazie a questo cammino. La guerra in cui , da ufficiale militare , si ritrova a combattere per ribaltare una tragica situazione economica familiare, è la sublimazione delle ragioni della sua specifica vendetta.  La vicenda è ben tratteggiata grazie anche a particolari che rendono questo forse il racconto più riuscito della raccolta: Si accenna spesso all’attenzione particolare del protagonista che “studia i ripetuti movimenti e le figure” delle persone, si alternano in continui flashbacks momenti privati e dolci a momenti forti e violenti; la complessità e la contraddittorietà del personaggio è poi delineata quando si accenna alla volontà di salvare alcuni ragazzi adolescenti dal consumo della droga che proprio  a causa SUA è in circolazione perché trasportata dalla compagnia aerea di cui lui è co – azionista; e poi il paradosso della Bibbia , che Doug legge da sempre, citata e messa in bocca al suo potenziale assassino proprio con le frasi bibliche in cui si accenna alla vendetta.

 

Nell’ultimo racconto “ISTINTO ANIMALE” si cambia essenzialmente prospettiva: si torna alla dimensione ancestrale e primordiale dell’uomo.  Più che di vendetta si parla qui di ATTACCO come istinto difensivo, come è forse più naturale che sia.. In una tribù di indigeni della colonia di Miwok si organizza un viaggio per ritrovare una lontana parente; ma il viaggio si rivela irto di ostacoli e da pagare a molto caro prezzo con la perdita di molte vite umane; le asperità vengono spiegate con gli influssi degli dei, come provenienti da un “altrove”. L’unica sopravvissuta dei protagonisti della storia, che poi riesce a trovare la nonna , viene salvata dalle violenze di un selvaggio che è l’artefice delle altre morti. Lo sconosciuto che la salva non viene identificato…e solo gli sguardi e ancora i movimenti riescono a lasciare l’indelebile traccia della salvezza di una vita e di un rapporto che resterà solo accennato e mai compiuto fino in fondo.

 

Al di là ,come si diceva, della scrittura molto “giovanile” e di qualche passaggio un po’ troppo didascalico, resta sospesa e irrisolta una questione di fondo: l’istinto vendicativo che legittimamente l’uomo (in qualsiasi epoca egli viva) possiede, che cos’è ? Immaturità o naturalità dell’istinto? Dopo la lettura di un libro come questo non possiamo sentirci del tutto tranquillizzati. E forse ,paradossalmente, è proprio la freschezza della giovane età di questo promettente scrittore che può continuare a farci compagnia con i suoi spunti provocatori e a lasciarci accesa la fiamma del dubbio che poi la nostra forza rassicurante della mente e dello spirito, col passare degli anni, tende a sopire. E la chiave di lettura dell’opera può essere trovata proprio in una sorta di sunto dei rispettivi finali che potremmo azzardare: Noi non conosciamo e forse non conosceremo mai il “nome” (e dunque la definibilità) di alcuni nostri lati oscuri, mentre la civiltà che costruiamo (come Calvino insegna) si raffigura ,sublimata, nelle “città” che però tendono a sorgere e a crollare come l’istinto dell’amore e della vendetta. Ma anche se siamo sempre bravi a definire i nostri lati buoni e a “separare” da noi i mostri che abbiamo dentro e fuori di noi…chissà alla fine chi è il vero mostro!

(L.M.)

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era di cupidix cop libro

“L’ERA DI CUPIDIX” di Paolo Pasi (ed.Spartaco, 2015)

Alzi la mano chi , nella sua vita, non ha provato almeno una volta il desiderio di una soluzione miracolosa per risolvere tutti i suoi problemi di carattere per lo meno sentimentale o umorale! Se poi siete fra quelli che ancora sono alla ricerca di tale “pozione”…bè questo libro fa per voi! “L’ERA DI CUPIDIX” di Paolo Pasi ci propone un’incursione immaginaria in un mondo dove realtà e immaginazione (anzi “virtualità”), si fondono  e si trovano delle soluzioni apparenti per trovare la felicità (come la si intende nei “piani alti” dell’imprenditoria commerciale) e la fine di qualsivoglia dolore e fastidio. “CUPIDIX” è il nome della pillola che , come si dice nel testo, potrà risolvere gli abituali inconvenienti delle varie fasi dell’innamoramento , ovvero i timori per eventuali fasi di “stanchezza” nel rapporto o ,al contrario , il sentirsi troppo dipendenti dal partner o i timori per la caducità della passione. Insomma , la via chimica verso un sentimento “perfetto” e senza sbavature o sbandate varie.

L’intreccio è costituito essenzialmente dalle vicende di Carlo, Ada e Giovanni. Carlo è un infermiere trentatreenne, sassofonista jazz per passione; Ada è una ragazza ambiziosa decisa a intraprendere la carriera di attrice ma il cui primo dramma è quello di dimenticare una infelice storia d’amore; Giovanni è il pubblicitario creativo che ambisce a “scalzare” colleghi e superiori di azienda con ogni mezzo necessario e il cui ingegno gli porterà a progettare la pillola “Cupidix”, pensata per far provare e soprattutto far perdurare nel tempo le sensazioni dell’innamoramento ;  successivamente proporrà la “contro – pillola” “Disamor”, progettata per chi  da Cupidix non trae beneficio , ma ha bisogno di “debellare la malinconia passiva” derivante da una forte pena d’amore; A differenza dei primi due personaggi, che della vicenda risultano più “vittime”, in quanto consumatori dell’un o dell’altro prodotto, Giovanni è il “produttore non consumante” dei rivoluzionari rimedi: dichiara di non aver bisogno di Cupidix  perché  “già innamorato” della sua Cristina , ragazza per lui perfetta . In realtà ,come si rivela nella narrazione, per lui l’innamoramento comunemente inteso è da evitare come la peste perché è visto come  una deviazione, una patologia incontrollabile. Ed egli, uomo tutto d’un pezzo, uno dei padroni dell’umanità “che consuma” , ciò non se lo può permettere. Giovanni di fatto è l’emblema dell’uomo del presente e del futuro che agisce dichiaratamente PER la sua gente, e proclama che grazie a quelli come lui il mondo sarà migliore. Ma la verità , anche banale se vogliamo , è che a lui interessa DOMINARE SULLA GENTE che è il suo mercato.

Carlo è di fatto l’esplicitazione di Giovanni, cioè quello che Giovanni non ha il coraggio di ammettere a se stesso di essere, una sorta di sua “proiezione “ nella realtà; Carlo svolge un’attività più “normale” e non nasconde le sue debolezze, le vive ,anche se male. Egli ama il Jazz e le Donne. La musica e la femminilità sono in effetti due temi del romanzo che ritornano a più riprese . Ogni capitolo del romanzo è intitolato con un brano di musica jazz che di quel capitolo è visto come esplicito “mood” e colonna sonora ideale; ciò si attua al massimo nelle scene in cui vediamo Carlo alle prese col suo Sax o quando discute con una donna sull’opportunità o meno di tornare a esibirsi dal vivo dopo tanto tempo. E’ nella musica e nella dimensione artistica che  ritrova le parti migliori di se stesso unitamente a un “ritmo” che è sì quello della musica della teatralità ,del tempo narrativo, ma è anche un ritmo, per così dire , “umano”, relazionale. A differenza di Giovanni che concepisce il prossimo come cliente puro, Carlo trova nell’interlocutore un confronto umanitario , che sia una donna o uno spettatore , e dunque ha una necessità di “narrarsi “ ogni volta “senza ripetersi”: è la parte più pura di un uomo pieno di cose da comunicare anche gratuitamente.  Il paradosso della pillola “Cupidix” (prodotta dall’industria cui fa riferimento Giovanni e consumata da Carlo) è che , a conti fatti, fornisce dei benefici solo apparenti ed effimeri: su Carlo la pillola lavora male perché a prima vista la pillola gli dà quell’energia artistica che lo fa suonare divinamente ma poi lo lascia in balia di strane e amare sensazioni(né più ne meno che le DROGHE). Su Giovanni ha effetti ancor più subdoli perché gli conferisce un successo commerciale ma poi egli non ne fa uso perché ritiene che non faccia per lui e, soprattutto, ha effetti troppo benefici sugli stessi suoi dipendenti industriali che in quella condizione non sono stimolati a lavorare e a produrre di più (come le richieste del mercato esigerebbero)  perché ritengono che la vita vada vissuta di più e meglio che non dedicandola alla sola produzione ( in una parola: si liberano dall’alienazione). E questo per un “padrone “ come Giovanni, è inaccettabile. Siamo al paradosso della “tragedia del prodotto”. Qui sembra di sentire l’eco di Fredéric Beigbeder: “La gente felice non consuma….”e del poeta portoricano  Pedro Pietri :“ Sto troppo bene per venire a lavorare…”: gli addetti non mettono più il denaro in cima alla gerarchia di valori che ora è cambiata…è un’essenza rivoluzionaria che andrà castrata con l’immissione sul mercato della pillola antidoto “DISAMOR”.

Giovanni Gandini ha PAURA dei sentimenti VERI che lui stesso con la pillola ha contribuito a rinsavire e che ora gli si possono torcere contro come un boomerang; può solo ragionare con la miopia degli affari e del fatturato che ,se trova soluzioni per lui adeguate, gli regala anche “erezioni matrimoniali”: di fatto parliamo di qualcosa che si rivela DROGA come effetto e DROGA come idea d’affari: in ogni caso non basta mai. Ora sarà il turno della terza pillola immessa sul mercato: “FIDELIX”. che si rivelerà la soluzione finale perché è definitiva per LUI in quanto elimina le tentazioni “devianti”(effetto che si riprodurrà anche per i suoi consumatori). E’ una pillola POLITICA (= versione “medica” del “tutto cambia perché nulla cambi”) e politicamente corretta, democratica e tollerante. Del resto la possibilità di dominare una volta per tutte i sentimenti “disturbanti” la si vede anche  nella nuova storia d’amore di Ada, che si conclude subito dopo un’avventura con un tale Marco ad Amsterdam… si vede la rapidità e la superficialità consumistica che chiede di “passare oltre” senza metabolizzare…come dire che per il futuro non serve il passato, quasi una risposta alle angosce di Giovanni per il futuro.

La forza dello scritto è di affrontare temi abbastanza  consueti ma con  tempi e  modalità tipiche della musica  Jazz ovvero “improvvisative” e di cambio repentino per non dar tregua alla attenzione del lettore e con ,a monte, la musica che detta le leggi, quando sia esplicitamente presente ma anche quando sia solo “sottintesa”. Si dosano quindi il ritmo e la musica che vanno in parallelo con la direzione “posologica” della medicina Cupidix  e del “consumo” necessario alla vendita che ne dà l’essenza. La scrittura è composta spesso da  periodi e frasi molto brevi e a “flash”: emergono la rapidità e una sorta di sinuosità repentina come nel jazz. Si potrebbe dire che il jazz traduce nell’ineffabile quello che non si può razionalizzare (già lo rivelarono gli scrittori ”beat” come ad esempio Jack Kerouack). Louis Armstrong “soffiava” nell’eventuale nota sbagliata affinché diventasse quella giusta: con il jazz di sottofondo, Paolo Pasi si mette nella condizione di non poter sbagliare perché le regole della scrittura vengono create automaticamente da sé senza possibilità di cali di ritmo strutturali; anche  perché, se anche questi ci fossero, potrebbero essere solo quelli evocati  all’interno della trama e non quelli della scrittura dell’autore.

Nello stile narrativo sono presenti anche alcune trovate divertenti quando non addirittura quasi comiche (“Era ancora bello innamorarsi: peccato ci fosse di mezzo sempre una donna” ; “(Uno slogan come) “Innamorati della vita”: a seconda dell’accento può essere letto in diverse versioni” ;“I pubblicitari della carta igienica non è che facciano uso di lassativi” (per dire che chi produce la pillola non è tenuto a farne uso e consumo). Sono sapientemente usati anche verbi molto azzeccati dal punto di vista descrittivo , (ad esempio “Inoculare tristezza” )  e  sinestesie letteralmente molto colorite (“Mare caricato di un blu vivace; ”il sole avrebbe creato la sensualità di un bacio arancione”; la “insensibilità in bianco e nero”) .

A cornice di questa vicenda non poteva mancare l’emblema per antonomasia dell’era “ipnotico – tecnologica” ,ovvero il Televisore: La narrazione si apre e si chiude con l’evocazione simbolica di questo malefico attrezzo che torna non a caso più volte nel corso della storia . Però il curioso invito a “lasciarlo spento”- che a mò di apertura e chiusura del cerchio viene rivolto dall’autore all’inizio e alla fine del racconto -si rivelerà una fallace speranza. Per quanto cerchiamo di liberarcene , in un modo o nell’altro serve come cristallizzazione  di una situazione che si rivelerà evocatrice di un mondo “più reale del reale” con alcuni risvolti ancora una volta grotteschi: “In tv si parlava dell’effetto delle pillole…peccato che la gente la tenesse sempre meno accesa!” Nel grande megastore dove Ada attende di incontrarsi con un’amica, i televisori compongono una sorta di “puzzle” della grande realtà virtuale mentre in sottofondo la realtà va “a tempo di swing”: e forse qui è l’unico momento in cui la realtà virtuale (qui rappresentata dagli apparecchi televisivi ) e la Musica, (la vincitrice morale che tutto potrebbe salvare) si “scontrano” fra le righe.

Alla fine potrebbe vincere  la MUSICA che traduce, come si diceva, in maniera ineffabile i sentimenti la cui autenticità è ormai messa in dubbio strutturalmente perché si è confusa con la meccanicità degli effetti della pillola, andando addirittura oltre la profezia cantata da  Lucio Dalla nel 1990: “Noi volevamo avere tutto quanto calcolato fino a quando abbiam perduto anche il tempo per un bacio”: ora questo “tempo” è stato trovato, ma  solo all’interno di una meccanicità in cui è ormai sottinteso che ciò che conta è essere i primi in tutto e essere “arrivati”. L’amore autentico è ormai “soggiogato” alla chimica e alla tecnica. E infatti il televisore che viene continuamente evocato sin dall’inizio…da spento che era prima , adesso, all’ultima riga del racconto si RIACCENDE ;come se l’autore ci dicesse: “Abbiamo scherzato, torniamo a quella realtà lì che è l’unica che ci possiamo permettere”.

(L.M.)

 

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“MAMMA A CARICO” di Gianna Coletti (ed.Einaudi, 2015)

Che il concetto di “famiglia” cambi con i tempi non è certo una novità; Ora si parla di “Famiglia adolescente”, di “ruoli” non più chiari nel rapporto tra i figli e i genitori, di padri e madri che difendono i proprio figli anche quando (ad esempio a scuola) si rendono responsabili di azioni e frasi quanto meno discutibili…Ma non è una novità neppure che per “corso naturale” , per così dire, i ruoli fondamentali di accudimento tra genitori e figli possano invertirsi. Detto semplicemente, da bambini veniamo seguiti, protetti ,  all’occorrenza anche redarguiti da “loro”…in vecchiaia è probabile che poi tocchi a noi fare altrettanto nei loro confronti. Così succede a Gianna Coletti, brillante attrice italiana, che nella sua opera prima “Mamma a carico”, descrive il percorso finale della vita della mamma Anna che viene affettuosamente chiamata “la mia vecchia”.

Il sottotitolo “Mia figlia ha 90 anni” è in questo senso emblematico: ora è Gianna che deve far da madre a sua madre. Una madre , si direbbe, atipica: in vita sua ha fatto di tutto in maniera quasi ossessiva per fare in modo che la figlia potesse realizzare il sogno professionale che LEI (Anna) non è riuscita a concretizzare in vita sua. Quale sarebbe questo “sogno professionale”? Ora si penserà…il medico? L’Avvocato? No, l’attrice! Proprio uno di quei mestieri che i genitori spesso cercano di “scongiurare” perché “di arte non si campa”! E invece Anna fa di tutto nella vita per donare alla figlia quella completezza artistica che Gianna poi si ritroverà come dono spirituale unita a una grande verve ironica che costituirà il suo “marchio di fabbrica” e che l’aiuterà anche in questo difficilissimo quanto arricchente percorso .

Anna è nella sua fase  terminale; priva della vista ormai da almeno una quindicina di anni , è ormai in balia degli eventi. Solo Gianna costituisce il suo punto di appoggio e di riferimento, il suo aiuto concreto e morale. Anna ha un carattere testardo e volitivo, di fatto non si rassegna alla sua condizione e quello che potrebbe di fatto sfociare in un immobilismo fatto solo di “attesa della fine” ( o , peggio , per dirla con Giorgio Gaber, “quello stupido riposo in cui si aspetta la morte”), si trasforma in una commedia tragica e grottesca al tempo stesso. Gianna si adopra perché la sua mamma viva questo ultimo tratto nel migliore dei modi e utilizza tutti i mezzi possibili, fra comforts tecnologici, badanti, sostegno psicologico fatto anche della sua arte , giochi di memoria, gesti fisici e qualche piccola litigata di “scuotimento”.  La cifra baldanzosa e giullaresca di Gianna, con uno spirito di fondo in bilico fra Bergson e Achille Campanile, stempera e alleggerisce quella pesantezza di fondo che è intrinseca in fasi come questa. (Vedi affermazioni come “La testa (della mamma) non è più quella di prima , ma anche quella di prima non era granché”). E ci sono anche continui giochi di rimando tra il pesante presente e il passato dinamico a sottolineare questa situazione di fondo ( quando si accenna ad esempio ai provini cui Gianna veniva sottoposta in giovanissima età). A contraltare c’è il fidanzato romano di Gianna ,Lorenzo; egli si dimostra molto più pragmatico e un po’ più prosaico di Gianna. Le sue frasi , poche ma efficaci, perlomeno a giudicare dalla narrazione, “risolvono” in maniera lapidaria le situazioni cui Gianna non sa spesso trovare risposte forse per paura o per ,a sua volta, incapacità di rassegnarsi ad alcune evidenze. (“A Già, te stai a invecchià cò tù madre…” ).

A sottofondo della vicenda ci si mettono anche i vari badanti in funzione ausiliaria che Gianna “assume” a seconda delle necessità: Ecco che la vicenda assume tratti quasi comici quando si scoprono piccole “tresche” amorose fra gli stessi e se la badante femmina piange non è per presunte difficoltà con la madre di Gianna bensì…perché la “storia” fra lei e il collega non funziona o non è andata in porto come sperava! Ma la leggerezza di Gianna come autrice e osservatrice dei fatti interviene in queste come in altre meno evidenti circostanze degne di nota; ad esempio quando i badanti cercano di sottoporre alla “vecchia” qualche piccolo corso di lingue straniere (specialmente lo spagnolo) per tenere allenata per quello che è possibile , la mente di lei…e Anna “respinge” grottescamente al mittente l’impegno degli operatori assistenziali con “uscite” come “per parlare lo spagnolo basta aggiungere la “s” in fondo alle parole!”

Comunque sia , il tratto forse più evidente che fa da comune denominatore è questo comprensibile e umano attaccamento alla vita a tutti i costi. Non si vuol lasciare la vita quanto più intensa è stata (addirittura Anna ad un certo punto dice di voler ricominciare l’attività  manuale coi massaggi professionali!); ma a “svelare” , nostro malgrado , gli aspetti più reconditi, ci si mette la psicanalisi: la psicologa di Gianna individua in Gianna stessa i problemi di fondo e non in sua madre: dipende da come vogliamo affrontare le difficoltà. Particolarmente toccante è in questo senso il capitolo dedicato alla “voglia di sognare”, quando il sogno inteso proprio come dimensione onirica del sonno non arriva, è inspiegabilmente assente…e l’autrice – attrice evoca nostalgicamente un Amleto che potrebbe rivelarsi salvifico con la sua consolatrice invocazione “Dormire …forse sognare…” e la cui assenza si rivela quasi una sconfitta da cui non si riesce a uscire e assume proprio le fattezze di una “tragedia” in tutti i sensi: la soluzione unica sarà quella morte che si tenta a tutti i costi di allontanare con ogni mezzo necessario; questi “mezzi” sono da trovare anche fra le righe del libro: a Gianna piacciono le piante , evocatrici di vita e natura e infatti va spesso a comprarle (tra parentesi il racconto si apre e si chiude con l’evocazione del trinomio vita/morte/natura con il riferimento alle ceneri della madre che verranno poste sotto alcune piante, perché la vita non si crea e non si distrugge ma “continua” nella sua trasformazione naturale). Ancora: Gianna vuole CAPIRE, anche quello che razionalmente non si può afferrare, quasi che fosse solo una questione di scienza o di ricette mediche . Nulla da fare. L’unica possibile soluzione è ancora una volta nell’arte. La “sublimazione” la si trova nel film che Gianna gira insieme alla regista Laura Chiossone “Tra 5 minuti in scena”, che riassume tutto e dove  finzione e realtà si confondono: vengono girate in diretta e dalla vita reale alcune scene di Gianna con la madre e vi si sovrappone l’allestimento problematico (di finzione) di uno spettacolo teatrale. Per Gianna questo è il top, potremmo dire “lenitivo”.

Il paradosso è che in questi “continui finali” che finali mai non sono (continui peggioramenti medici della madre che poi si “riassestano” e la fanno migliorare), si stravolge il “tempo” teatrale che dovrebbe costituire la cifra della dimensione allo stesso tempo personale della donna Gianna e artistica della stessa attrice /scrittrice. Il momento liberatorio arriva solo con la morte di Anna. A quel punto però la forza vincente di Gianna sarà aver dimostrato che la “composizione” artistica che sempre trionfa è quella del cuore. Lo stesso cuore che non fa perdere nemmeno per un attimo il ritmo “interno” della scrittura che si traduce nel mantenimento del ritmo della lettura e che fa trionfare sulla morte la “Bellezza” con la B maiuscola. La stessa dimensione che fa affermare a Gianna di fronte alla bara della madre “(Anna) è proprio bella”.

(L.M.)

 

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“ETRURIA FELIX” di Melisanda Massei Autunnali (ed. Il foglio, 2015)

 

Vi immaginereste mai una classe liceale non di ragazzi in carne ed ossa ma di gatti? Sì, proprio di felini comuni…bè, forse non proprio comunemente intesi; ma che riescono a fondere le caratteristiche degli studenti di liceo classico (ognuno con la sua propria personalità) con le sinuosità , gli opportunismi e le furberie ,ma anche le tipiche movenze fisiche dei nostri amici quadrupedi “pelosi”. Un piccolo sforzo di fantasia e… eccovi serviti da “ETRURIA FELIX”, terza opera letteraria del ciclo “Progetto Dodecapoli” dell’autrice toscana Melisanda Massei Autunnali.

L’intento di dare una sorta di “summa” storico – archeologica si unisce così ad una gradevole storia che vede come protagonisti la classe di gatti insieme al professor Bellandi, insegnante in carne ed ossa un po’ in bilico tra lo stralunato e il tentativo di essere “tutto d’un pezzo” di fronte a questa curiosa quanto improbabile “combriccola”, cui si rivolge un po’ grottescamente con appellativi tipicamente toscani (“lei là col pel nero”…).

Le caratteristiche feline sono quelle che determinano, di fatto, lo svolgimento del plot narrativo; i gatti( identificati con tanto di nome e cognome come dei veri esseri umani) hanno i loro bio – ritmi e dunque è impensabile che resistano più di un tanto seduti a dei banchi di scuola. Ecco dunque la “curiosità” che proverbialmente può “uccidere” il gatto, in questo caso sprona il professore all’apprendimento sul “campo” con continue gite e visite sui luoghi della storia che una classe di allievi “normali” si limiterebbe ad apprendere sui libri di testo (e ,sembra suggerirci l’autrice, forse è questa anche la “natura” degli allievi di una certa età in cui gli impulsi vitali si fan sentire di più e così potrebbero esser più facilmente appagati). I gatti si fanno notare chi per la diligenza, chi per l’essere scapestrato, chi per la timidezza ( e tra l’altro sono persino ritratti in appendice al libro ognuno con la propria fotografia).

Il protagonista però risulta il gatto Ivano Tussinini , quello più sensibile e intelligente anche se a volte sottilmente presuntuoso, con cui il professore ha una sorta di rapporto “privilegiato”; nella divertente assurdità della vicenda, si tratta del gatto in cui Bellandi trova spinta e motivazione al proprio ruolo in una sorta di dialettica fra “speci viventi”(a volte si può notare anche una chiara intesa “para-verbale”); quello che lo stimola a discussioni culturali che spesso si rivelano l’altra faccia di quelle umanitarie, laddove con altri gatti alunni è più difficile instaurare un dialogo più “ragionevole” . Del resto i gatti hanno spesso occasione di rivelarsi metaforicamente l’altra faccia di scolari classici; ad esempio quando Ivano dichiara la propria natura curiosa come forza motrice per conoscere e scoprire cose nuove. Dalla sua il professore ha buon gioco a incitare gli alunni (e in particolare sempre Ivano) a non arrendersi mai nelle loro ricerche e curiosità motrici anche quando sembrano imprese titaniche; una citazione come la scoperta di Troia da parte dell’archeologo Schliemann , realizzata e portata a termine quando sembrava improponibile , è in tal senso emblematica.

La forza globale del testo è quella di condensare in un racconto divertente e commovente al tempo stesso delle micro – lezioni di storia e archeologia come è dichiaratamente espresso dall’intento di Melisanda ; Il racconto mantiene sempre la sua freschezza e la sua scorrevolezza nell’arco di poco più di 260 pagine, anche se forse qualche episodio risulta un po’ ripetitivo e superfluo e poteva essere “condensato” in altri passaggi. Ogni personaggio , felino o umano, è ben caratterizzato e senza fronzoli; non mancano anche passaggi anche pungenti come il tratto dove Ivano scopre il “Gossip dell’epica” di fronte alla statua di Virgilio , quasi messa lì a bella posta, per ricordargli un momento dell’”Eneide” : l’amore e la fine della storia tra Didone ed Enea, che fa il parallelo con la storia di amore di Ivano e la sua Clotilde, gatta avventuriera incontrata e poi perduta per sempre  durante una delle sue gite e che costituirà il suo cruccio e il suo “tallone d’Achille” all’interno della sua forza e sagacia di rara finezza che lo contraddistingue dai suoi compagni.

Altri elementi simbolici tornano e fondono il continuo gioco di rimandi tra l’irrequietezza,  l’estrema curiosità felina (e dunque la sua dinamicità tipica anche se vogliamo dell’adolescenza) e la staticità “parlante” della storia che non smette mai di comunicarci con la sua voce fatta di immagini e poesia: ecco che dunque il nostro Ivano è capace di emozionarsi di fronte a un vaso etrusco dove si nota una “figura rossa con la terracotta (..) nel ricordo di una storia che tutti in Grecia dovevano conoscere :L’Iliade: Il troiano Sarpedonte colpito a morte da Patroclo…”. La storia parla a un gatto come ad un umano sensibile di oggi ,mentre i gatti risultano anche più perspicaci di noi nell’intuire se un umano dice la verità o meno. E’ il caso del momento grottesco in cui i gatti riescono a far dire al professore della “gita a Perugia” con una ragazza del suo passato e a farlo “confessare” fra le righe anche alcuni particolari che un uomo del suo calibro forse non avrebbe concesso.

 

I capitoli del libro sono introdotti da un verso  o una strofa tratti da alcune frasi di cantautori e la prefazione è affidata al cantautore –attore Franz Campi; la musica d’autore è dunque apertamente un complemento arricchente del retroterra culturale di questa valida e interessante scrittrice – giornalista che porta a termine con questo volume un’operazione tanto originale quanto azzeccata: la storia attraverso l’amore. Non l’amore banalmente inteso ma quello per l’umanità: perché anche attraverso gli animali e l’arte si espleta appieno l’amore per il prossimo. E Melisanda dà prova di saperlo bene e di poterlo comunicare anche meglio.

Cop Dale Zaccaria Nel suo amore

“NEL SUO AMORE” di Dale Zaccaria (2014)

Con passo felpato. Così è doveroso e necessario addentrarsi nei meandri dell’ineffabile che la Poesia – in senso lato -ci regala. Il codice prosaico del recensore si avvicina dunque con un timore reverenziale per il sospetto di sminuire, di fraintendere e la certezza di usare strumenti in qualche misura impropri per “tradurre” le personali sensazioni derivate da una lettura. Tali impressioni sono amplificate se sono poi dedicate a una figura grande e significativa come quella di una grande attrice, in questo caso Franca Rame. Le 22 poesie della raccolta “Nel suo amore”, della poliedrica artista Dale Zaccaria , le rendono piena giustizia.

 

La prima cosa che salta all’occhio è La dimensione minimale e apparentemente intimista dello scritto . Con pochi tratti e pochi versi l’autrice si immerge nell’impresa di costruire e colorare un ampio quadro che non si limita didascalicamente alla descrizione del personaggio di riferimento ma ne fa una sorta di “obiettivo” di partenza e arrivo .

 Partiamo dal titolo “Nel suo amore”: La poesia che dà il titolo all’intera raccolta indica la strada delle “piccole cose” e del cuore come semplice via e modalità per arrivare all’origine e obiettivo dell’”essere”; ovvero il “Mondo deve pur andare da qualche parte nel Suo Amore”; vien da chiedersi se il “suo Amore “ è quello di Franca  o quello del Mondo. Ma , in fondo, che differenza fa? Franca qui è la “Regina” . La regina di un mondo che può essere quello di Dale o quello dell’universo femminile che Dale ha visceralmente a cuore ; la brillante strada dell’autrice si rivela dunque essere una caleidoscopicità di sensazioni che trasformano la storica attrice italiana in una sorta di “Aleph” Borgesiano dove ritrovare qualcosa di più di un mucchio di tematiche e simboli. Franca diventa una chiave di volta ,di lettura, strumento per capire il mondo e affrontarlo insieme.

 

E allora nelle parole di Dale ecco che Franca diventa, forse un po’ idealisticamente ma in maniera sempre delicata ed efficace, la “Vasta Signora dei giusti”, la lotta e la speranza grazie alla quale si può imparare dalla guerra degli umili. Tornano così alla mente i passaggi rilevanti della carriera della protagonista che insieme al marito Dario Fo, ha intrapreso fondendo il suo cammino artistico con quello intellettuale e di lotta autentica in favore degli ultimi, degli operai e delle donne che subiscono violenza (come capitò anche a lei). Ma la violenza che si può subire in questi casi può nascere solo da una enorme sensibilità umana ; la stessa sensibilità che contraddistingue i “pochi” dai “molti” (o meglio , per dirla con Elsa Morante i “Felici pochi” dagli “Infelici molti”). In seguito a ciò l’amore può persino diventare un “REATO”, ma è logico che sia visto così se il mondo migliore e possibile deve ancora nascere: e nascerà in presenza della Donna.

 

Pensiamo per un attimo al poeta sufi Rumi(ripreso da Franco Battiato)  “A giudicare dall’apparenza, il ramo è l’origine del frutto; ma in realtà, il ramo è venuto all’esistenza in vista del frutto. Se non ci fossero stati un desiderio e una speranza per il frutto, come avrebbe potuto il giardiniere piantare la radice dell’albero? Ecco perché in realtà dal frutto è nato l’albero”. E noi Potremmo dire ecco perché in realtà la donna nasce perché il mondo migliore verrà e sarà possibile. E viene dunque da chiedersi se la tanto agognata “rivoluzione” non ci sia effettivamente già stata (come dice Gian Piero Alloisio); perché è la sensibilità derivata da una “goccia di bellezza madre” che può fare la vera rivoluzione che conta, che non si fa nelle strade e nelle piazze ma dentro di noi.

 

L’abilità della poetessa, oltre che di condensare tutto l’amore umano in poche righe è anche di saper trasmettere visivamente e ritmicamente (forte anche della sua esperienza performativa che la rendono artista completa) le sensazioni di contorcimento emotivo che alcune volte subentrano; è il caso del frammento “Ti porterò” dove si descrive con continui versi “spezzati” la fatica e lo stoicismo del portare una Rosa Bianca, simbolo della purezza e della Vittoria, su una strada tortuosa ma alla fine vincente.

 

E quando la parola non basta o non serve…ecco che arriva l’umiltà del grande artista che sa anche “stare al suo posto” e deporre temporaneamente le armi: La “parola” più gentile può essere quella “Mai nata” e L’amore va protetto ma se necessario NON PRONUNCIATO; Le cose “non dette” a volte sono più forti e vere se vissute e protette.

 

Quando invece l’autrice entra più nel “mistico” sorge qualche perplessità in più, in quanto può apparire qualche “pennellata” un po’ di maniera; Naturalmente, d’altra parte,  si capisce che la “deificazione” della protagonista è comunque un elemento più teatrale e di “coloritura” letteraria e poetica e dunque può “starci” come sublimazione finale e di compimento per il quadro d’autore regalato da questa valida poetessa a un’artista che oltre che un idolo sembra essere un’autentica guida spirituale scolpita nella mente di chi l’ha sempre visceralmente amata e sente che Franca non se n’è mai andata ed è ancora presente nel cuore e nella mente e nell’anima dei “resistenti” e dei “vincitori di domani”.

L.M.

 

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“SE UN CADAVERE CHIEDE DI TE” di Sara Magnoli (ed. Giacomo Morandi editore.2015)

 

Una partita a scacchi con la tensione, l’intreccio e soprattutto la psicologia: questa ci pare la definizione più immediata per descrivere l’atteggiamento di chi si accinge a comporre un racconto giallo, che quasi sempre ha delle tinte “noir”. Ma i colori son solo definizioni di comodo; più “scomodo” è mettere insieme i vari elementi dei personaggi di una storia e “indovinare” la combinazione vincente ed evitare modalità e passaggi scontati. E ci pare che Sara Magnoli, giornalista e scrittrice dalla valida penna, ci riesca piuttosto bene; forte della esperienza della saga di “Zac e Lalo”, ovvero la serie di gialli dedicati ai ragazzi, eccola finalmente alla prova con un genere più “classico”.

La ex- giornalista Lorenza Maj, che al momento della vicenda si dedica a un più prosaico lavoro di centralinista lasciandosi alle spalle un matrimonio fallito e una città che non ama, viene coinvolta suo malgrado nell’oscura vicenda della morte della cantante tedesca Hannelore Von Drier. Quest’ultima viene ritrovata morta nei camerini del teatro della città (la stessa da cui era fuggita Lorenza sei anni prima) dove sarebbe dovuta tornare a cantare dopo anni di assenza dalle scene , con un biglietto curioso e inquietante: nel timore di essere uccisa la cantante indica Lorenza come la referente cui chiedere informazioni in caso di assassinio. Peccato che Lorenza ritenga di non aver nulla a che fare con l’artista. Ma le indagini ovviamente, a causa di questo indizio, non possono escluderla . Da lì Lorenza si troverà dunque costretta a fare i conti col proprio passato, tornando nella città da cui era scappata per rifarsi una vita e reincontrando dunque personaggi che aveva cercato di dimenticare. Riuscirà Lorenza a rendersi e a rivelarsi effettivamente una “utile pedina” per scovare l’esecutore materiale dell’omicidio della cantante, come il biglietto misterioso sembra voler suggerire?

Al di là del naturale “rebus” da risolvere per ogni giallo che si rispetti, “nessuna storia è mai finita”, come si sente dire Lorenza da Maximilian, il figlio di Hannelor Von Drier ,uno dei personaggi chiave della vicenda che arriva in Italia dalla Russia per trovare a sua volta la chiave del delitto. E così a Lorenza tocca “riprendere” il filo interrotto di molti rapporti umani lasciati in sospeso, tra i quali quelli con Matteo, l’ex – marito che ha fatto carriera nel giornalismo, Eleonora, la migliore amica di Lorenza che si è “Rifatta una vita” proprio con Matteo, e alcune autorità locali per cui la stessa Lorenza non ha mai provato grande simpatia. Ciò che traspare infatti, più che l’infittirsi della vicenda, è la gran quantità e qualità di rabbia, frustrazioni e rancore personale che Lorenza fa emergere lungo l’arco narrativo. Più che l’umanità, a salvarsi sono gli affetti degli animali, come la gatta di Lorenza “Stiffelin” e questo la dice lunga sulla fiducia di Lorenza nei confronti del prossimo.  Del resto quella della protagonista è principalmente una lotta contro l’ipocrisia e la falsità, la ricerca disperata di una dimensione di affetto e sincerità all’interno di un ambiente anche lavorativo cui ella aveva cercato di dare tutta se stessa, ma da cui aveva ricevuto prevalentemente delusioni.

La “città” è quell’ambiente che , a conti fatti con la realtà ,risulta sempre differente e lontana dalle evocazioni utopiche di Tommaso Campanella ma anche di Italo Calvino; quella evocata dalla Magnoli è una “piccola città” dove accadono “cose normali” che paradossalmente fanno la soddisfazione e l’orgoglio professionale del Vicequestore Luciano Mauri, un austero professionista che non si fa certo scrupoli di sensibilità di fronte al carattere “fumino” di Lorenza, la quale non è certo “felice” del ruolo che qui le è forzatamente assegnato.

Ci sono Due elementi interessanti del racconto messi un po’ fra le righe : il primo è l’elemento della comparazione linguistica: L’autrice, forte del suo poliglottismo, in alcuni momenti compara il tedesco con l’italiano in chiave tendente all’ironico (ad esempio quando si confronta il tedesco “Gattin” ,cioè “moglie”, con i “suoni che evocano vaghe movenze feline” in italiano).

L’altra caratteristica è il modo di evocare il ritmo della vicenda. Nella terza di copertina si accenna al fatto che il “ritmo della tensione non è da thriller”; può essere, ma  in compenso si percepisce un andamento più “sinuoso” e “raziocinante”, tipico da chi si capisce che predilige la verità e l’autenticità dei sentimenti umani più che l’ansia per arrivare alla “chiave” risolutiva del racconto; (non a caso molto spazio è dato ai dialoghi interiori e “non detti” di Lorenza) e in più in un paio di occasioni si accenna ad un “guardare ritmicamente” gli interlocutori (quando questi siano due); è una modalità interessante di dare una musicalità (o anche una teatralità “visiva” se si preferisce) alla narrazione.

E siccome nella musica e nel teatro esistono anche le pause, ecco accennare ad un silenzio che “non sta mai zitto”: il silenzio può dire più di tante parole, specialmente se notturno…come di notte si svolgono alcuni degli incontri fra Lorenza e Maximilian Stravinsky, il figlio della vittima…; in una notte, grazie a questa “pausa” di riflessione silenziosa,  Lorenza rivede le sue “stelle spente” , ovvero gli affetti delusi e la sua mancata realizzazione nel lavoro. Ma evidentemente la stessa città che tanto aveva deluso Lorenza e da cui ella stessa era voluta fuggire…le instilla una riflessione amara quanto necessaria: Restare significa poter spiegare, cioè affrontare se stessi, riconoscere e assumersi le proprie responsabilità. Ed ecco il punto: Se un cadavere chiede di te…forse è , metaforicamente il TUO cadavere, quello dei fallimenti di ciò che saresti voluto essere e non sei stato. E non è detto che sia tutta colpa del destino , anche se a volte ci fa comodo pensarlo. Lorenza cercava l ‘”immortalità” giornalistica ( e forse la popolarità), e invece tornare sul luogo del “delitto” e del proprio “cadavere” è “restare sotto i riflettori”, che non sono quelli del successo professionale (o non necessariamente), ma quelli del proprio io da cui non si potrà mai fuggire.

L’unica evidente smagliatura nell’ordito del romanzo, complessivamente scorrevole e ben strutturato, ci pare il momento in cui, quando ormai i giochi sono fatti è il colpevole è rivelato, la narratrice Lorenza (o forse l’autrice Sara…) si lascia andare a una considerazione del tipo “Spesso nei film o nei libri accade che il colpevole (…) sia una persona che risulta antipatica sin dall’inizio (….) i buoni trionfano , i cattivi pagano(…) però non va sempre così…”. Come a dire che lo scrittore di gialli è sempre alla ricerca di una chiave risolutiva che risulti imprevedibile, nuova e “non già detta” rispetto a tutto ciò che sinora è già stato scritto…e fra le righe si percepisce un pensiero del tipo “Io invece son stato più originale del solito e ve lo sottolineo”. E un tratto come questo fa parte di quella categoria di elementi didascalici o che andrebbero sottintesi ,lasciando che sia il lettore ad Accorgersene o a giudicare se l’originalità c’è stata o meno da parte dell’autore (o dell’autrice).

Lorenza  si congeda poi con una lettera alla sua gatta, come si diceva, l’unico interlocutore che non può tradire la persona umile, pura di cuore e desiderosa di contentezza e felicità come è Lorenza; una volta tornata al suo lavoro, forse, la protagonista riuscirà a trovare un po’ di pace anche nella modestia del suo prosaico lavoro, anche guardando la meraviglia di un paesaggio naturalistico raffigurato in un poster, magari accontentandosi di capire che ,come dice Eros Ramazzotti “Certi sogni son come le stelle: irraggiungibili, però quanto è bello alzare gli occhi e vedere che sono sempre là”.

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“FRATELLI NERI” di Gerry Mottis (ed. Armando Dadò, 2015)

Uno dei paradossi di certe opere letterarie  è di rivelarsi degli atti di grande coraggio –quasi rivoluzionario – perché vengono scritti con grande semplicità, umiltà, non molto oltre la mera descrizione dei fatti rappresentati e vanno nello stesso tempo a sfidare le prevedibili reazioni sociali contro “la fiera dei buoni sentimenti” (o “buonismo”, come si tende a dire oggi). Ci sembra che non potesse esserci momento più propizio e significativo per l’uscita di questo nuovo romanzo dello scrittore Svizzero – Grigionese Gerry Mottis “FRATELLI NERI”, ovvero la storia dei primi internati africani nella Svizzera Italiana durante la seconda guerra mondiale.

La vicenda trae spunto , come recita il sottotitolo, dall’internamento di alcuni soldati africani provenienti dalle colonie francesi in Africa , subito dopo l’8 settembre 1943; Essi vengono sistemati provvisoriamente all’interno del Collegio Sant’Anna di Roveredo , nel cantone Grigioni. Qua comincia una breve ma intensa avventura in una situazione di precarietà e incertezza del futuro; gli africani sono inevitabilmente sottoposti a un “confronto” con la civiltà Svizzera della Valle Mesolcina, ma anche con i profughi ebrei rifugiati nello stesso luogo, tra cui il commediografo Sabatino Lòpez (voce narrante della vicenda) e il poeta italiano Diego Valeri. In una situazione di “emergenza”, dove la guerra imperversa in Europa e il destino degli innocenti è in preda alla più totale aleatorietà ed incertezza, chiunque diventa “attore” della sorte propria e di quella degli altri personaggi, per la storia apparentemente “secondarii”. Le suore, i combattenti africani, i personaggi di uno sperduto paese della Valle Mesolcina, i poeti, le autorità locali…tutti accomunati dal corso degli eventi per cui si concretizza il monito Brechtiano , poi ripreso da Francesco De Gregori “LA STORIA SIAMO NOI!NESSUNO SI SENTA ESCLUSO”.

E il termine “attori” non è scelto a caso: L’io narrante della storia è un autore teatrale ,rifugiato in quanto ebreo insieme alla moglie nel ricovero “Immacolata Concezione” di Roveredo. Qui ,dai racconti di una suora, verrà a sapere la vicenda degli internati africani all’interno del Collegio Sant’Anna, avvenuta poco tempo prima. L’io narrante esordisce   dicendo “Non avevo mai osato mentire in vita mia”; (l’etimologia greca della parola “attore” è “Upokritès”, da cui l’Italiano “Ipocrita”); ma ora si vede costretto a usare un falso nome per sfuggire al rastrellamento nazista; verità e “maschera” vengono così a sovrapporsi per la necessità di sopravvivere. Del resto i “ruoli” ,nelle vicende qua narrate, sono tutti di VERITA’ e SOSTEGNO reciproco, ma il bello è che ognuno agisce con le proprie caratteristiche e le differenze (di etnia, cultura o anche di formazione professionale) costituiscono soltanto un arricchimento reciproco. I sentimenti umani sono invece il comune denominatore al di là di tali diversità.

Il difficile è combattere gli stereotipi banali che derivano dalla “paura” dell’altro o forse dalla “pigrizia” del non voler accogliere le potenzialità umane e culturali che da tali potenziali incontri possono derivare. O più semplicemente si preferisce usare il “diverso” come sfogo per le proprie frustrazioni. Emblematica è la figura della LENA, la paesanotta che non ha mai avuto troppa fortuna con gli uomini e allora si sfoga con i classici stereotipi razzisti contro “i negri”. Ma tali stereotipi non saranno molto lontani da quelli dei paesani montanari che , non appena vengono a sapere dell’internamento nel collegio, iniziano ad accusare le autorità locali di “trattar meglio loro di noi”, a sostenere che “quelli potrebbero ammazzare i nostri figli”…oppure che è “gente che viene a rubarci il lavoro”…proprio come succede ai tempi nostri. E’ la storia che si ripete, si direbbe. Forse però ,come dice in maniera un po’ indulgente  Suor Cherubina, una delle suore dell’Istituto , quella degli abitanti indigeni non è cattiveria ma solo “curiosità”, anche se gestita un po’ male nei confronti dei “fratelli neri”.

Ma c’è “salvezza” in tutto ciò? Mottis sembra dirci di sì.  E non si tratta di una salvezza “escatologica” ma semplicemente derivata da un cambio di prospettiva. Lo stesso Lòpez, come scrittore e in questo caso “ricercatore” dei fatti che va a raccontare,  dichiara di intraprendere la sua impresa narrativa come “passatempo letterario per sfuggire all’orrore crescente che si insinuava nei nostri cuori di esuli (…)”, quasi a definire la forza catartica della “parola” che vince sulla discriminazione e soprattutto sull’oblio del tempo, per tramandare la memoria. E’ significativo che a scrivere sia un DRAMMATURGO ,ossia qualcuno che scrive perché la parola sia non solo narrata ma anche AGITA  in teatro . Anche perché il linguaggio del CORPO ,da cui deriva l’azione concreta, a volte nella civiltà africana (ma in realtà in tutte le civiltà) è molto più eloquente del semplice verbo. Dove non arriva la LINGUA , ci si può intendere con la prossemica degli SGUARDI; la scansione delle azioni quotidiane che scorrono in maniera quasi monotona ,costante e rituale può essere messa in parallelo con il senso del ritmo ancestrale che si sviluppa da parte dei “fratelli neri” nel momento della partita di calcio , quando qualcuno accenna a un ritmo percussivo tipico delle loro danze.

Ma soprattutto nei momenti delle rappresentazioni teatrali che evocano situazioni che potrebbero essere per loro familiari non c’è da parte loro significativo accenno di reazione, solamente un’impassibilità che si ripete anche quando vengono loro date notizie di particolare rilievo o gravità: La loro è un’interiorità che può essere letta con piccoli cenni  microscopici del corpo, come anche gli sguardi colmi di gratitudine che sostituiscono il “grazie” verbale.

“Fratelli neri” sembra  dunque rappresentare una “prova” di confronto fra culture differenti , dove però le “differenze” (prima fra tutte quella di RELIGIONE) risultano essere fittizie, di convenzione o di comodo, o semplicemente delle mere casualità( quasi alla stregua del colore della pelle) e ciò è tanto più chiaro nel momento in cui il sacerdote invita ognuno a pregare nella propria lingua e secondo i propri parametri. A volte si accetta di “sottomettersi” alle regole di un’altra religione ma soltanto per sentirsi “interiormente” più vicini all’appartenenza del tuo prossimo; è il caso del rifugiato Sebastién che vuole farsi battezzare secondo il rito cristiano per unirsi spiritualmente a Fernanda, l’infermiera che lo cura amorevolmente , per “sublimare” la relazione di amore che con lei non potrà mai avere perché, secondo i ruoli convenzionali, ha “passato l’età da marito, ossia i 30 anni.  Ma la cultura arriva soprattutto dove gli altri parametri civili non possono arrivare . Il poeta Diego Valeri , ebreo a sua volta internato, è chiamato – tra l’altro dalle stesse autorità locali che della “cultura” hanno evidentemente un concetto molto relativo e opportunistico – a tradurre dal Francese per conto degli internati che solo quella lingua parlano, anche perché , secondo suddette autorità, “in quanto letterato ebreo , avrà tutto il tempo del mondo…e figuriamoci se riuscirà a parlar loro di poesia”. E invece, contrariamente a tale pensiero, la cultura è per TUTTI, anche per il popolo del luogo: Ciò che unisce non è l’economia (come sarebbe spontaneo pensare) ma LA CULTURA perché TUTTI VOGLIONO VEDERE la rappresentazione teatrale che in teoria è pensata solo come “svago” per gli africani; la funzione catartica di queste narrazioni(come si accennava prima) riguarda e accomuna tutti . E quando verso la fine sembra esserci lo scontro quasi “etnico” fra la popolazione ospite e quella residente, ancora una volta interviene l’arte a “salvare” la situazione: Ancora Diego Valeri emerge sopra la folla e con la declamazione di una sua poesia “ spiazza” tutti e riconcilia “ancestralmente” gli animi di civiltà diverse nelle modalità ma simili nella naturalità del ciclo vitale.

Scontro o incontro di civiltà, potremmo domandarci riandando con la mente al romanzo dello scrittore Amara Lakhous “Scontro di civiltà per un ascensore a Piazza Vittorio”?. Al lettore l’ardua sentenza. Un libro che non esiteremmo a definire ESSENZIALE per capire le origini di alcune problematiche e conflittualità non necessariamente circoscritte ai luoghi e alle popolazioni di cui qui si racconta, ma che trascende nella asciuttezza e semplicità delle vicende narrate , la contingenza di un passato la cui universalità spazio – temporale è di semplice e immediata percezione e che consiglieremmo a chiunque voglia approfondire la propria sensibilità civile , ma soprattutto ad alcuni professionisti politicanti molto abili nella comunicazione più verso la “pancia” che verso la “testa” di quelli che essi sono convinti che “testa” non abbiano ma che servono a mantenerli su certe “poltrone”.

L.M.

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“INNAMORATA DI UN CANTANTE” di Francesca Orelli (ed.Leucotea,2015)

Esistono vari livelli di realizzazione personale, mancata o compiuta che sia. Vi si può aspirare nel lavoro, nelle umane passioni, anche nei vizi personali. A chi scrive, il mondo della musica rock  pare per eccellenza il mondo delle realizzazioni incompiute: per quanto a uno sguardo superficiale possa apparire un universo di energia, successo e “ribellione” gridata, in realtà c’è sempre un che di inappagato che serpeggia in tutto ciò che comporta l’esserci dentro. Queste sono le sensazioni centrali che emergono dalla lettura della terza opera letteraria della ticinese Francesca Orelli “Innamorata di un cantante”, nuovo capitolo della saga “I love rock’n’roll” di cui rappresenta il secondo capitolo in ordine di pubblicazione, in realtà il primo in ordine cronologico. Esso, per spirito e contenuto, si discosta solo in parte dal precedente “Nelle mani della ribelle” (di cui dovrebbe costituire il “prequel”), essendo anch’esso ambientato nel mondo dell’Hard Rock e in particolare nelle vicende dell’immaginario gruppo dei Blackshark, rock band di fama e successo mondiale. Dietro ai personaggi di volta in volta protagonisti dei (sinora) due capitoli di tale “novela” in realtà non è difficile riconoscere i componenti  in versione “stilizzata” di una nota rock band ticinese di cui la Orelli si dichiara fan accanita da sempre.

La vicenda vede come protagonisti Daria Vismara e Continua a leggere

arte

“PENSIERI PER L’ARTE” di Marta Lock (ed.Monetti Ragusa,2015)

 

“SINESTESIA”: ecco una parola chiave per comprendere il futuro (e anche il presente) dell’arte. O meglio DELLE ARTI. L’unione di tipologie diverse di forme espressive sembra sempre più  essere una delle carte vincenti per prodotti interessanti e in certi casi originali e di energia innovativa.

E di sinestesie si parla proprio in questa opera della scrittrice Marta Lock. “Pensieri per l’arte” è un’operazione curiosa, costituita essenzialmente da 150 aforismi a suggello di altrettante opere d’arte di artisti vari.  Lo stile aforistico è una delle carte vincenti di Marta, scrittrice talentuosa e da anni ormai sulla cresta dell’onda. La raccolta dei suoi “pensieri della sera”, che quotidianamente redige, è reperibile sul suo sito www.martalock.net ed è in costante aggiornamento. Questo libro mostra dunque la capacità di Marta di tradurre nel linguaggio della poesia le sensazioni spesso difficilmente “decodificabili” che un quadro trasmette all’utente medio comune .

Torna alla mente la difficoltà di coesistenza di codici fra tipi diverse di arte, sintetizzata da Frank Zappa nella famosa battuta: “Parlare di musica è come ballare sull’architettura!” Ebbene, la sensazione immediata che se ne trae sin dalle prime pagine – e che viene confermata sino in fondo – è che Marta riesca nella non semplice operazione di “chiarire” il linguaggio dell’arte contemporanea attraverso le corde del cuore, più che di quelle dell’intelletto. Si tratti di uno sguardo di donna perplesso e perso all’orizzonte, di un ritratto di un uomo con la pipa da vedere tra le righe in una composizione quasi “mosaicale” o di un paesaggio invernale innevato… sono le parole di Marta a svolgere la funzione “necessaria e complementare” per rendere appieno l’essenza del dipinto. Non è un’operazione didascalica e didattica quella della Lock, ma una personalissima rielaborazione che si traduce in riflessioni su aspetti essenziali della vita in cui tutti possiamo ritrovarci.

Difficile selezionare le opere più significative, perché tutte le opere e i conseguenti aforismi hanno una loro attrattiva e un fascino che induce a conseguenti riflessioni; come non restare meditabondi di fronte agli sguardi intensi di un bambino o di una ragazza o di una donna di colore o di due semplici occhi di ragazza… Ad esempio nel “Viaggio Della speranza” della pittrice Angela Procopio, riproducente un bambino che guarda timoroso e speranzoso da una fessura, Marta legge la possibilità dell’evoluzione di un piccolo sogno verso un grande sogno…che si rivela anche umanitario. Particolarmente avvolgenti e struggenti i suggelli a commento di scene della natura, dove spesso entrano prepotentemente in gioco sentimenti come il rapporto con l’altro, l’attesa di un “dopo” che auspichiamo migliore, il fluire del tempo.

A volte c’è spazio anche per musica e musicalità: nel dipinto di Malù Mansonetti viene riprodotto un chitarrista a tinte variamente colorate e vagamente impressioniste dove Marta ci ricorda che “Il mondo è una tavolozza di colori….” E forse la musica ci aiuta a coglierne i vari aspetti. Ma è forse soprattutto nell’arte puramente astratta che la Lock ci sorprende di più, riuscendo a tradurre col suo cuore di donna sensibile immagini che spesso all’occhio comune sfuggono per la loro difficile decifrabilità. E’ proprio in questi casi che Marta ci “prende per mano” e ci fa entrare nei misteri  della vita che a volte è rappresentabile con dei gesti istintivi (nella pittura come nella musica ma  anche nel teatro) e che fra le righe va letta come la stessa scrittrice ci disvela, spesso proponendoci delle autentiche perle di saggezza. Per una maggioranza di casi in cui le frasi di Marta si presentano come delle autentiche “rivelazioni” sul mondo e sul nostro prossimo.

A volte si ha l’impressione che qualche pensiero sia un po’ più contorto e cervellotico rispetto agli altri. Ma ciò  rappresenta il bello di questa carrellata di immagini e pensieri che, a parere di chi scrive, può essere riassunta in uno dei più riusciti aforismi del volume, posto a commento del dipinto di Melchor Terrero “La cita”: “Le persone non sono mai ideali; sono semplicemente imperfette, persone reali i cui difetti si incastrano perfettamente coi nostri”. Semplicemente grazie, Marta!

www.martalock.net

Per acquistare il libro :http://www.ibs.it/ser/serfat.asp?site=libri&xy=pensieri+per+l%27arte

 

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“IL FONDO DELLO SPETTACOLO” di Davide Colavini (ed.Arcipelago, 2014)

L’ artista è qualcuno che cerca la sua identità come rovistando tra le macerie della prosaicità quotidiana…proprio come il cabarettista Renato Cavazza…alter ego del poliedrico e instancabile Davide Colavini che ci presenta la sua opera prima “IL FONDO DELLO SPETTACOLO”,ovvero un“viaggio” all’interno della vita di un uomo in fondo normale, come tanti..che però “rifiuta “ la sua “normalità.  La ricerca dell’identità autentica in fondo sembra essere imprescindibile da quella di un’arte , anche perché è chiaro sin da subito che, come viene ripetuto nel corso del testo, “recitare” non è un’azione che si fa solo sul palco, ma nella vita di tutti i giorni; e la si ritrova nelle relazioni interpersonali della famiglia e degli affetti come nel lavoro.

Sin Dalle prime battute il testo  è fulmineo e al vetriolo come lo stile medio dei testi dello “stand up comedian” (ossia del comico) : “STOP NON CI SIAMO CHIARIAMOCI LE IDEE!”…nelle parole di un regista di spot pubblicitari vi è l’invito dell’artista frustrato a chiarirsi…in poche battute troviamo  già la comicità sottile, e non dichiarata : il povero artista squattrinato (Renato),personaggio secondario nello spot pubblicitario  a confronto con il protagonista dello spot, il calciatore del momento, divo milionario scazzato che è strapagato in confronto all’artista che vuole sfondare ma deve fare i conti in tasca a se stesso con le umiliazioni conseguenti…

 

Renato ricorda i suoi sogni artistici di ragazzino: sogna di diventare una rockstar… mentre ascolta ciò che per lui è  il massimo della trasgressione, ovvero  Edoardo Bennato. Ma c’è anche una critica comica ai miti che accompagnano ogni adolescente…alcuni “miti” dividono anziché unire…come BOB DYLAN che “essendo di un’altra generazione” rispetto a quella di Renato…che è invece più “tipo da U2”…può causare anche la fine di uno dei tanti “amorazzi” giovanili.  Renato E’ Malato di protagonismo come i protagonisti dei talent show attuali ,non sa che aspirazione ha concretamente….ma il suo ruolo è RECITARE in ogni senso e declinazione…è un sottile e sottinteso atto di accusa alla società che lo rifiuta proprio mentre lui è quello che si DOVREBBE ESSERE ma lui vuole essere riconosciuto per questo…Del resto negli anni ’70 e un po’ anche negli anni ’80 salire sul palco e limitarsi ad essere se stessi  era un elemento trasgressivo a confronto dei divi “costruiti su misura” (e così si spiegava il successo,ad esempio, dei cantautori). Ma come ogni bravo artista che si rispetti… siccome di arte e spettacolo non si campa, bisogna nel frattempo passare attraverso mille mestieri…il rappresentante di commercio, il verniciatore,il grafico…e tra un’esperienza lavorativa e mille tentativi di “sfondare nel mondo dello spettacolo…un bel  po’ di situazioni e “avventure” sentimentali.

E’ un mondo, quello di Renato Cavazza, fatto di Illusioni che nascono all’improvviso e sfioriscono come niente….I LAVORI sono come gli AMORI..quasi non c’è differenza per la loro genealogia…. Sembrano uscire situazioni comiche dalla banalità di ogni lavoro che non riesce mai ad essere pienamente appagante,sia in quelli fatti per campare, sia nelle situazioni del cabaret fatte di situazioni fatiscenti, locali mal frequentati o impresari che si spacciano per finti amici e poi scompaiono nel nulla a volte senza neanche saldare il compenso per l’artista…paradossalmente sembra che il modo di “essere” del cabarettista” comporti proprio il fatto di essere degli inetti al lavoro e alla vita di coppia che però viene vista con occhio pietoso! (Vedi ad esempio la storia con Katia , lo speakeraggio in radio come alternativa e valvola di sfogo..fino a quando non capita l’occasione dei provini allo storico “Zelig”).  E non manca, fra le righe il mai risolto Dibattito sulla “soggettività” della comicità, …cosa fa ridere e cosa no?

 

Il romanzo risulta molto fulmineo e colorito nel passare da una situazione all’altra…una banale e prosaica, l’altra penosamente sentimentale….come lo stile da stand up comendians…passando per la fatica di sopravvivere …e già nel periodo narrato la CRISI è la parola imperante…accuse sottili che saltano fuori a ogni piè sospinto… C’è anche il riferimento alla fine di un mondo e ad ciclo politico che determina la fine del benessere economico retto su un sistema. (Vedi anche i riferimenti alla fidanzata “berlusconiana” che gli troverebbe un posto presso suo padre ma LUI non vuole…confronti con mentalità di vita diverse….ma sempre affrontate in modo astratto e poco pratico).

il TEMPO che scorre viene così neutralizzato in un’attualizzazione di situazione che annulla le distanze fra ieri e oggi…la politica è un eterno ritorno di cicli…la “crisi” economica è sempre un alibi e una scusante per “tagliare” teste a ogni piè sospinto, qualsiasi ruolo lavorativo si assuma.

Le donne e il cabaret: a volte sono 2 facce della stessa medaglia… il cabarettista a volte ci fa la figura del “banale”…del trasandato nella vita…ma è il ritmo “comico” e rapido della narrazione che riscatta la banalità della vita del protagonista da cui sembra non esserci scampo…sembra quasi che il comico debba essere per forza di cose immaturo per riuscire bene nel suo lavoro passando necessariamente però dagli insuccessi, anche perché  “il cabarettista deve vivere” per poter fare il suo lavoro e trarre spunto dalla vita reale. A volte sono presenti indicazioni tecniche del mestiere  teatro ,quasi a voler conferire una nobilitazione del mondo approssimativo e naif del cabaret ,come ad esempio la“QUARTA PARETE” teatrale.

LA Massima umanità dell’uomo/artista è rintracciabile nei momenti in cui se ne vanno i parenti stretti ma l’arte riesce a vincere perché lo spettacolo “Ho bisogno di farlo lo stesso”, (in occasione della morte del padre è questa la reazione nobile di Renato); forse la differenza con un attore sta che l’attore è più diretto e si prende più sul serio, un cabarettista cerca di nascondersi dietro le banalità dell’uomo comune e banale …e questo spartiacque della morte improvvisa della madre si traduce in una violenta presa di posizione antifideistica del protagonista che rifiuta la compagnia di un Dio consolatore. Ma se il cabarettista ,nella sua follia della disperazione ..finisce col credere alle poche cose che gli restano..alla fine non risulta un “perdente” ma più un “perso”…che stenta a trovare la sua strada..che alla fine troverà con una conclusione però un po’ “favolistica” e anche arrogante: Lui diventa una celebrità mandando a quel paese il suo pubblico che paradossalmente proprio per quello comincia a idolatrarlo…come i vari Sgarbi di turno che diventan famosi e acquisiscono fascino proprio perché stronzi.

Il romanzo , che forse come unico difetto ha il fatto di presentare un po’ troppe continue situazioni analoghe fra loro, creando una sorta di effetto tipo  “tira e molla” , presenta alla fine la classica “chiusura del cerchio” con l’inversione dei ruoli: con il calciatore incontrato all’inizio del romanzo che ora è fallito e va a trovare Renato alla sua festa di compleanno e lui gli ricambia il “favore” del sottilmente beffardo  “te si che vai bene”..come aveva fatto lo stesso calciatore in passato nei confronti di Renato.. Resta una domanda inevasa: Ma il  l’autore è arrabbiato col suo mondo ,con se stesso o con cosa? (L.M.)

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