Archivio della categoria: OCCHIO CRITICO – rubrica di recensioni

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“IL FONDO DELLO SPETTACOLO” di Davide Colavini (ed.Arcipelago, 2014)

L’ artista è qualcuno che cerca la sua identità come rovistando tra le macerie della prosaicità quotidiana…proprio come il cabarettista Renato Cavazza…alter ego del poliedrico e instancabile Davide Colavini che ci presenta la sua opera prima “IL FONDO DELLO SPETTACOLO”,ovvero un“viaggio” all’interno della vita di un uomo in fondo normale, come tanti..che però “rifiuta “ la sua “normalità.  La ricerca dell’identità autentica in fondo sembra essere imprescindibile da quella di un’arte , anche perché è chiaro sin da subito che, come viene ripetuto nel corso del testo, “recitare” non è un’azione che si fa solo sul palco, ma nella vita di tutti i giorni; e la si ritrova nelle relazioni interpersonali della famiglia e degli affetti come nel lavoro.

Sin Dalle prime battute il testo  è fulmineo e al vetriolo come lo stile medio dei testi dello “stand up comedian” (ossia del comico) : “STOP NON CI SIAMO CHIARIAMOCI LE IDEE!”…nelle parole di un regista di spot pubblicitari vi è l’invito dell’artista frustrato a chiarirsi…in poche battute troviamo  già la comicità sottile, e non dichiarata : il povero artista squattrinato (Renato),personaggio secondario nello spot pubblicitario  a confronto con il protagonista dello spot, il calciatore del momento, divo milionario scazzato che è strapagato in confronto all’artista che vuole sfondare ma deve fare i conti in tasca a se stesso con le umiliazioni conseguenti…

 

Renato ricorda i suoi sogni artistici di ragazzino: sogna di diventare una rockstar… mentre ascolta ciò che per lui è  il massimo della trasgressione, ovvero  Edoardo Bennato. Ma c’è anche una critica comica ai miti che accompagnano ogni adolescente…alcuni “miti” dividono anziché unire…come BOB DYLAN che “essendo di un’altra generazione” rispetto a quella di Renato…che è invece più “tipo da U2”…può causare anche la fine di uno dei tanti “amorazzi” giovanili.  Renato E’ Malato di protagonismo come i protagonisti dei talent show attuali ,non sa che aspirazione ha concretamente….ma il suo ruolo è RECITARE in ogni senso e declinazione…è un sottile e sottinteso atto di accusa alla società che lo rifiuta proprio mentre lui è quello che si DOVREBBE ESSERE ma lui vuole essere riconosciuto per questo…Del resto negli anni ’70 e un po’ anche negli anni ’80 salire sul palco e limitarsi ad essere se stessi  era un elemento trasgressivo a confronto dei divi “costruiti su misura” (e così si spiegava il successo,ad esempio, dei cantautori). Ma come ogni bravo artista che si rispetti… siccome di arte e spettacolo non si campa, bisogna nel frattempo passare attraverso mille mestieri…il rappresentante di commercio, il verniciatore,il grafico…e tra un’esperienza lavorativa e mille tentativi di “sfondare nel mondo dello spettacolo…un bel  po’ di situazioni e “avventure” sentimentali.

E’ un mondo, quello di Renato Cavazza, fatto di Illusioni che nascono all’improvviso e sfioriscono come niente….I LAVORI sono come gli AMORI..quasi non c’è differenza per la loro genealogia…. Sembrano uscire situazioni comiche dalla banalità di ogni lavoro che non riesce mai ad essere pienamente appagante,sia in quelli fatti per campare, sia nelle situazioni del cabaret fatte di situazioni fatiscenti, locali mal frequentati o impresari che si spacciano per finti amici e poi scompaiono nel nulla a volte senza neanche saldare il compenso per l’artista…paradossalmente sembra che il modo di “essere” del cabarettista” comporti proprio il fatto di essere degli inetti al lavoro e alla vita di coppia che però viene vista con occhio pietoso! (Vedi ad esempio la storia con Katia , lo speakeraggio in radio come alternativa e valvola di sfogo..fino a quando non capita l’occasione dei provini allo storico “Zelig”).  E non manca, fra le righe il mai risolto Dibattito sulla “soggettività” della comicità, …cosa fa ridere e cosa no?

 

Il romanzo risulta molto fulmineo e colorito nel passare da una situazione all’altra…una banale e prosaica, l’altra penosamente sentimentale….come lo stile da stand up comendians…passando per la fatica di sopravvivere …e già nel periodo narrato la CRISI è la parola imperante…accuse sottili che saltano fuori a ogni piè sospinto… C’è anche il riferimento alla fine di un mondo e ad ciclo politico che determina la fine del benessere economico retto su un sistema. (Vedi anche i riferimenti alla fidanzata “berlusconiana” che gli troverebbe un posto presso suo padre ma LUI non vuole…confronti con mentalità di vita diverse….ma sempre affrontate in modo astratto e poco pratico).

il TEMPO che scorre viene così neutralizzato in un’attualizzazione di situazione che annulla le distanze fra ieri e oggi…la politica è un eterno ritorno di cicli…la “crisi” economica è sempre un alibi e una scusante per “tagliare” teste a ogni piè sospinto, qualsiasi ruolo lavorativo si assuma.

Le donne e il cabaret: a volte sono 2 facce della stessa medaglia… il cabarettista a volte ci fa la figura del “banale”…del trasandato nella vita…ma è il ritmo “comico” e rapido della narrazione che riscatta la banalità della vita del protagonista da cui sembra non esserci scampo…sembra quasi che il comico debba essere per forza di cose immaturo per riuscire bene nel suo lavoro passando necessariamente però dagli insuccessi, anche perché  “il cabarettista deve vivere” per poter fare il suo lavoro e trarre spunto dalla vita reale. A volte sono presenti indicazioni tecniche del mestiere  teatro ,quasi a voler conferire una nobilitazione del mondo approssimativo e naif del cabaret ,come ad esempio la“QUARTA PARETE” teatrale.

LA Massima umanità dell’uomo/artista è rintracciabile nei momenti in cui se ne vanno i parenti stretti ma l’arte riesce a vincere perché lo spettacolo “Ho bisogno di farlo lo stesso”, (in occasione della morte del padre è questa la reazione nobile di Renato); forse la differenza con un attore sta che l’attore è più diretto e si prende più sul serio, un cabarettista cerca di nascondersi dietro le banalità dell’uomo comune e banale …e questo spartiacque della morte improvvisa della madre si traduce in una violenta presa di posizione antifideistica del protagonista che rifiuta la compagnia di un Dio consolatore. Ma se il cabarettista ,nella sua follia della disperazione ..finisce col credere alle poche cose che gli restano..alla fine non risulta un “perdente” ma più un “perso”…che stenta a trovare la sua strada..che alla fine troverà con una conclusione però un po’ “favolistica” e anche arrogante: Lui diventa una celebrità mandando a quel paese il suo pubblico che paradossalmente proprio per quello comincia a idolatrarlo…come i vari Sgarbi di turno che diventan famosi e acquisiscono fascino proprio perché stronzi.

Il romanzo , che forse come unico difetto ha il fatto di presentare un po’ troppe continue situazioni analoghe fra loro, creando una sorta di effetto tipo  “tira e molla” , presenta alla fine la classica “chiusura del cerchio” con l’inversione dei ruoli: con il calciatore incontrato all’inizio del romanzo che ora è fallito e va a trovare Renato alla sua festa di compleanno e lui gli ricambia il “favore” del sottilmente beffardo  “te si che vai bene”..come aveva fatto lo stesso calciatore in passato nei confronti di Renato.. Resta una domanda inevasa: Ma il  l’autore è arrabbiato col suo mondo ,con se stesso o con cosa? (L.M.)

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“COME UN SASSO NEL LAGO” di Maria Fedele (“il cilegio”,2014)

Copertina "Come un sasso nel lago" di Maria Fedele

Copertina “Come un sasso nel lago” di Maria Fedele

come_un_sasso_nel_lagoSCELTA_BIANCA

“Dove abita l’onesta’?” o meglio “quale luogo E’ ABITATO dall’onesta’?”. E’ questa la domanda che serpeggia sottilmente e “subdolamente” nel romanzo della scrittrice Maria Fedele “Come un sasso nel lago”. Dietro una fabula apparentemente costruita con ingredienti abbastanza consueti in realtà è presente fra le righe una ricerca spietata e affannosa della propria identità intrinsecabilmente legata agli affetti che circondano la protagonista, quasi tutti tratteggiati con caratteristiche, per un verso o per l’altro, problematiche. La vicenda è quella di Claudia (forse alter ego dell’autrice), donna separata dal marito Giorgio e con a carico due figlie, che sta cercando di vivere una nuova vita divisa tra il lavoro, la sua famiglia e le amicizie. A farle da contraltare la presenza della Zia Rosetta, affetta da problemi psichici, che ritiene di essere destinata alla missione di salvare le vite, da quando da giovane di fatto era stata salvatrice di un bambino abbandonato che aveva chiamato Giacomo e che poi si era vista sottrarre dai servizi sociali. La separazione problematica dal marito Giorgio, banale uomo avventuriero e “piacione” che aveva a suo tempo conquistato Claudia forse più per la sua apparenza e per le sue facolta’ prosaiche, viene turbata dalla comparsa (o meglio “ricomparsa”) di Gaetano, conosciuto da Claudia anni addietro come insegnante di canto di sua figlia e ora maestro di yoga. E’ qui che l’intreccio si complica e si infittisce…in un continuo gioco di rimandi di memoria e di accadimenti come “scherzi del destino” che porta Claudia e Gaetano a reincontrarsi e a separarsi continuamente nella ricerca della definizione di un rapporto non chiaro ma anelato fra i due.
L’arte come “catarsi” è l’elemento vincente della narrazione: l’autrice recupera le sue esperienze con le discipline artistiche e le “proietta” all’interno del racconto come elementi centrali motori dello sviluppo della vicenda: vedi ad esempio la Voce di Gaetano che esce col suo canto dal cd, come pure il canto che torna come elemento fondante nel racconto del viaggio in Africa che Claudia ritrova descritto nel suo diario, insieme alla danza folkloristica come disciplina che UNISCE, unitamente all’arte del dialogo, che invece “da noi italiani solitamente è scarso” come annota Claudia. Poi c’è La voce della stessa Zia Rosetta che terrebbe testa alle voci africane. E infine la multidisciplinarietà delle arti varie (pittura, poesia, musica, recitazione) dove l’Arte celebra il suo un po’ autoreferenziale trionfo nella festa organizzata da Claudia per la sua amica artista. Il corpo e la voce svolgono dunque una funzione di “rivelazione” anche quando ci si reincontra grazie alla disciplina dello yoga.
I momenti migliori della narrazione sono forse da ritrovare fra le righe e fra i concetti, oltre all’arte è evidente la funzionalità del CORPO e dello spazio da esso ABITATO (vocabolo che ritorna anche nel titolo di uno dei capitoli “la donna abitata”): l’”abitare” come ricerca di un appiglio e della propria onestà reciproca fra esseri umani può forse essere tanto la causa che il fine ultimo della ricerca e della risoluzione dei rapporti umani che stentano a trovare una precisa definizione. Purtroppo la vera soluzione sembra essere una sorta di “salto generazionale”, se la vera bontà pura e riconoscibile è quella che lega una donna a un figlio adottato e solo successivamente rivisto fugacemente dopo tanti anni, e invece quella tra madre e due figlie “vere” (Claudia e le sue figlie) è affetto autentico ma più di routine, senza nulla di particolarmente spumeggiante, e non a caso Claudia mostra più empatia con la Zia (sua controparte “scomoda” da cui pure deve difendersi perché le ricorda le parti di sé che lei tenderebbe più a respingere, e nello stesso tempo potenzialmente migliori).
Un po’ penalizzanti invece sono le parti più descrittive come quella del diario in Africa, eccessivamente lunga, o le parti sulla descrizione di sensazioni interne riguardo alla separazione dal marito; nelle parti più razionali dove si medita sulla “sincerità reciproca del detto e del non detto“ o del “compromesso per non mentire…” l’autrice rivela comunque il suo lato più raziocinante che determina una sorta di “antiteatralità “ di fondo nel senso del “ritmo” artistico del testo. Questa “antiteatralità” però viene riscattata nei momenti della descrizione della pratica dello yoga che invita il lettore ad essere accompagnato dal respiro che può fargli “prendere fiato” necessario per capire e soffermarsi, atto che però l’autrice sembra vedere respinto dalle persone che le stanno intorno e che non dicono “Neanche una parola sul passato”… Ma serve il passato per il futuro? Maria (Claudia) sembra “urlarci” di sì!
Il momento più sublime del testo è il DIALOGO CON LA MAGNOLIA: momento forse centrale del racconto: in un fittizio dialogo con questa pianta Claudia “smuove” i suoi dubbi e le sue domande irrisolte, ma la frase fatale è quella della pianta che sostiene di CAPIRE L’INFELICITA’ di Claudia da come ella si “muove nello spazio senza occuparlo (ossia “Abitarlo”) veramente” (ossia “vincendo” sull’antiteatralità di Claudia/Maria): ma se si è abitati, la “fase abitata” è essere abitati dalla paura e forse dalla pazzia in parallelo con la zia Rosetta (che parlava da sola e sentiva le Voci a sua volta):arte e natura dunque, rispecchiate nella pianta.
Alla fine però Claudia vince. Vince con il trionfo dell’arte. Vince paradossalmente con la partenza della Zia che amava, ma rispetto alla quale Claudia voleva essere migliore e ce la fa, con l’allontanamento definitivo di Giorgio (persona banale e negativa). Vince vivendo una situazione prosaica e imbarazzante con Gaetano: trovarsi in mezzo al vomito tra il water e il bidet, ma forse proprio per questo più vera e autentica. Claudia vince con la sua autenticità di donna sensibile e intelligente e la forza “scomoda” di saper tirare i “sassi nel lago” che emanando i cerchi concentrici dell’empatia dalla quale ora accetta di essere investita accettando il mondo e se stessa.

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(L. M. 9 maggio 2015)

Questo articolo è stato pubblicato in OCCHIO CRITICO il 9 maggio 2015. Modifica