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Alessio Lega (a cura di ): LA RESISTENZA IN 100 CANTI (ed.Mimesis, 2022)

Ricordo  di avere redatto una ventina di anni fa  un progetto per le scuole in cui proponevo una sorta di “incontro tra musica e storia”. In due parole si trattava di un ciclo di lezioni in cui attraverso le canzoni si suggeriva una chiave interpretativa dei fatti storici di una determinata epoca. In vena di autocitazionismo, aggiungo che una mia canzone si intitola “Ci ha già pensato lui”. Eh si perché di fatto, a fare- meglio di quanto avrei fatto io -una cosa del genere ci pensa il caro collega Alessio Lega.  Chiariamo subito che definire Alessio “cantautore” è estremamente riduttivo. Alessio è un uomo di cultura nel senso più ampio e nobile del termine, scrittore, saggista, ricercatore, storico , una persona curiosa come pochi nel senso di voler approfondire gli aspetti più misteriosi e reconditi degli anfratti culturali non solo del nostro paese ma anche , tanto per fare un esempio, del versante cantautorale estero(a tal proposito è da citare il suo lavoro sul russo BUlat Okudjava , meritatamente insignito del premio Tenco).

“La resistenza in 100 canti” , come suggerisce il titolo, propone un percorso storico su una pagina fondamentale del nostro paese, certamente approfondito ma per certi aspetti in maniera anche spiazzante. Confesso che , pur essendo sempre stato interessato alla canzone politica e militante in senso stretto, molti di questi canti non li conoscevo. Del resto , sarebbe stato facile limitarsi a fare una versione aggiornata del lavoro culturale (per dirla con Luciano Bianciardi) intrapreso a suo tempo da personalità illustri come Ernesto De Martino o Roberto Leydi. E’ giusto anche “andare avanti” nel senso di scoprire elementi nuovi ma anche darne una chiave personale e rielaborata nelle chiose ad ogni testo. Alessio divide il lavoro in una prefazione e cinque capitoli (Inni di un popolo in rivolta- Feste d’aprile e dopo -Canti antifascisti – Resistenza europea – Nuovo cantastorie partigiano), riassumibili storicamente in un “prima” e un “dopo” la guerra. Perché sono storicamente importanti le canzoni? Perché fino a un certo punto ,scrive Alessio “le canzoni non potevano mai dire la verità” ,a meno che non fossero ligie al regime. “E poi venne bella Ciao”, canzone purtroppo , negli anni recenti,spesso considerata “divisiva”(aggettivo orribile anche  in quanto termine ormai abusato ed esasperante, né più né meno che “resilienza”). Ma soprattutto arrivarono i canti come mezzo di sopravvivenza morale mentre si combatteva con fede e speranza in circostanze spesso drammatiche. Per Alessio la resistenza è “La voce con cui la musica della vita si oppone al silenzio della morte”. E con 100 canti a disposizione c’è di che “opporsi” al mortal silenzio, ma ancora Alessio ci mette in guardia: noi possiamo ancora ricordarle, ascoltarle e anche cantarle, ma “ce le meritiamo in quanto vegliamo sull’eredità di tali ideali e siamo disponibili a difenderli”. Un invito alla coerenza artistica di cui sarebbe proprio da indagare la diffusione: quanti possono realmente cantare questi brani oggi? Il livello dell’imborghesimento di ciascuno di noi, sembra dire Alessio, consente di imbracciare la chitarra (o la fisarmonica, o anche  usare la sola voce a cappella, fa lo stesso) e intonarle?

La ricchezza delle informazioni inserite praticamente in ogni commento a ogni singolo brano è testimonianza dell’importanza dell’elemento artistico come parte essenziale della storia orale. Lega inoltre lo propone in maniera molto personale spesso condita con una leggerezza che tende a sdrammatizzare il “peso” del singolo passaggio storico, ma anche con note di vissuto personale che sottolineano come la fruibilità del “gesto” poetico e canoro diventi parte integrante della rielaborazione che della storia il singolo fruitore, come individuo della storia stessa facente parte e non certo come presunto “eroe”, fa perché la Storia sia poi elemento vivo e non puro insieme di nozioni da mandare a memoria, come spesso abbiamo vissuto a scuola.

La prostituta Romana Gavina C. nel suo libro autobiografico “SENZA PATENTE” del 1976 scrive “Io ragiono che se uno può fare qualcosa per qualcun altro e non lo fa è un gran figlio di mignotta”. Ecco, analogamente, dopo aver letto quest’opera io dico: Chiunque (e riscrivo : chiunque) ,a prescindere dalle sue idee politiche, può qui trovare una chiave di lettura della Resistenza attraverso le voci di chi la ha vissuta, rielaborata e le parole di un ricercatore attendibile e preparato come l’autore. Poi potrà comunque rimanere “da un’altra parte della storia”, se crede, ma non potrà negarne la necessità storica. Se lo fa, o è stupido o è in malafede. (L.M.)

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“GIORGIO AMBROSOLI: DOLORE, ORGOGLIO,MEMORIA” di Francesca Ambrosoli con Luisa Bove (ed. San Paolo, 2022)

Il vero eroe è chi non ha alcuna ambizione ad esserlo. Certamente l’avvocato Giorgio Ambrosoli , liquidatore della banca privata Italiana del faccendiere Michele Sindona negli anni ’70, ucciso l’11 luglio 1979 da un sicario da Sindona ingaggiato, non ha bisogno di siffatti titoli per essere ricordato. Un uomo che ha deciso di compiere il lavoro di cui era stato incaricato, di compierlo bene ,con dedizione e metodo, e soprattutto “in nome dello stato e non per un partito” ,come scrive alla moglie nella nota lettera che precede di quattro anni il suo assassinio.

La figlia Francesca Ambrosoli descrive in “Giorgio Ambrosoli: dolore orgoglio memoria” (scritto in collaborazione con la giornalista Luisa Bove) la sua versione dei fatti. 15 anni dopo la testimonianza del fratello Umberto rilasciata nel volume “Qualunque cosa succeda” ora è la primogenita a raccontare dal suo punto di vista la stessa vicenda. La “cronaca” dei fatti è essenziale e semplice, in quanto si sceglie di dare maggiore spazio ai ricordi e alle sensazioni personali e alla dimensione più “privata”. Del resto è una sfida dichiarata il fatto di riuscire a raccontare questa storia, su cui Francesca si dichiara essere rimasta in passato nelle retrovie, mentre il fratello e la madre già erano pubblicamente attivi in tal senso.

Sono proprio i particolari, le piccole cose personali e le dinamiche degli affetti coi loro aneddoti, a caratterizzare la narrazione, precisa ma anche fluida e spesso commovente. Per chi conosce personalmente Francesca , lo stile narrativo risulta coerente e complementare alla sua personalità, dolce e decisa allo stesso tempo. Spicca l’elemento della fede, sempre molto presente non solo come conforto rappresentato da autorevoli personalità religiose, ma anche come forza propulsiva e forse decisiva nei momenti più drammatici. Francesca nella fase adolescenziale non ha rapporti intensi coi coetanei, si sente spesso a disagio e, nei momenti di maggiore solitudine, sono svaghi alternativi come la chitarra a farle trovare la pace e la serenità almeno in maniera transitoria.

Ma è forse rimarchevole  la dimensione intima del silenzio e dell’ascolto della “Parola” (intesa come parola di Dio ma anche come dimensione dell’affermazione dell’uomo all’inizio della sua comparsa agli albori della civiltà). In un’ottica che il filosofo Brandon LaBelle definirebbe di “giustizia acustica”, si cerca di riportare il senso appropriato della parola e del silenzio come ricerca intima del significato della dimensione “esatta” dell’ascolto. Certamente l’appello muto di Giorgio Ambrosoli non solo non è stato ascoltato da chi all’epoca avrebbe dovuto garantire protezione a chi per esso (cioè per tutti noi) stava alacremente lavorando , ma addirittura a distanza di tempo arriveranno alcune beffarde  e ciniche sortite tra cui quella infelicissima di Andreotti, all’epoca dei fatti narrati presidente del consiglio, che sardonicamente commenterà “Ambrosoli se l’andava cercando”!

E’ qui,dunque ,che  la speranza che il credente trova nella fede, anche l’agnostico o l’ateo può trovare in UN ascolto preciso. Quello della “Parola”. La parola che però non è “commento”. Il sacerdote che pronuncia l’omelia funebre di Giorgio, in una chiesa semivuota dove praticamente nessun rappresentante dello stato è presente (e qui risuonano inquietanti le parole di Leonardo Sciascia :”Lo stato non può processare se stesso”)invita a non “commentare” quello che non è oggi razionalmente spiegabile. Come è possibile che un uomo, per avere fatto il suo dovere , faccia una fine così atroce, abbandonato dallo stato per aver fatto con rigore rispettare le sue leggi? Nell’invito a evitare il commento perché “di disturbo al dolore”, forse è davvero il SILENZIO che può portare all’ascolto del “giusto”. Nel silenzio, nella semplicità di essere, di comportarsi, nella discrezione degli atteggiamenti con cui ci si affaccia al mondo che ci aspetta, si trova la forza e la ragione per andare avanti e testimoniare, con una “parola” pura, onesta, legale, e priva di orpelli. Come lo è Francesca. Come molti altri testimoni di dolore e di forza “appresa”, ereditata e portata avanti con dignità.

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“BORGO LENIN” di Cinzia Romagnoli (ed. Koi Press,2017)

E’ sempre difficile trovare le parole giuste per descrivere le sensazioni dopo una lettura di un testo dove si intrecciano più piani narrativi ,dal giallo alla storia, dalla musica alla psicologia. La paura maggiore è quella, banale ma fatale, di non aver compreso. Di aver smarrito la traiettoria, di non sapere a cosa dare la priorità sul piano del significato. Del resto forse è proprio questa la sfida che un’autrice come Cinzia Romagnoli ci lancia nel suo “BORGO LENIN”, ambiziosa ricostruzione storico – poliziesca sullo sfondo della pianura padana che dai giorni nostri rimanda ad un passato di lotte e di “rinascita” .

I due principali piani narrativi sono l’indagine da parte del poliziotto Fabio Sinigaglia sulla morte di un pensionato Bolognese e il passato cui questa rimanda, fatto di miserie e di guerra, di invasioni e di semplicità , come da “copione”, potremmo dire, nei borghi umili della pianura padana nella seconda guerra mondiale. Il poliziotto Sinigaglia è uno dei tanti professionisti, poco entusiasta della vita e della professione, ma ligio al dovere . I ragazzi della vicenda che fa da contraltare sul piano narrativo (in particolare i protagonisti Libero, Taramòt e Culodritto) sono i bambini attraverso i cui occhi la guerra e i suoi contorni assumono le sembianze quasi di un film , di un mondo pericoloso ma a suo modo attraente, da guardare di nascosto e dove intervenire al momento giusto, con rischi ma anche con le ambizioni di “uomini in erba”. Sono proprio i loro occhi ,spesso rivelatori, a “leggere i segreti” nascosti , nonostante le circostanze belliche sembrino sminuire quei “particolari. Libero, uno dei tre, osserva il paesaggio con la nebbia di novembre , i pioppi…dove trova la metafora della “rappresaglia” e di tutte le faccende degli adulti: ecco qui il primo elemento poetico – descrittivo che ci fa entrare in empatia con i protagonisti. E’ a quel passato che la morte di questo pensionato apparentemente insignificante rimanda, proprio a causa di un nominativo su un biglietto da lui lasciato; Sinigaglia e i suoi colleghi nella loro indagine su quel nominativo , trovano contatti cui risalire , per arrivare al passato sopra descritto ; da qui si dipanano i continui rimandi a passato e presente per arrivare con una vicenda piuttosto intricata, alla risoluzione del “giallo” iniziale.

Al di là della “fabula” in sé, è interessante vedere come la narrazione parta con periodi rapidi ,spezzati che fanno da contraltare con il tema della morte che è quello essenziale che ci si presenta davanti, con il suo attacco narrativo “La morte non ha nulla di nobile”. E il richiamo alla “Tabula Rasa” di Arvo Part ne è il contraltare musicale ,come ogni capitolo del resto avrà un riferimento di tal genere. I gesti semplici e annoiati  del morituro espletano il rapido “precipitare” della vita che a un altro mondo poi conduce. Ben altro tipo di frenesia ci attende dopo ,infatti. E sarà proprio quello che fa da sfondo alla “guerra personale” dei ragazzi che, pur nella dura condizione in cui vivono , costituirà la loro crescita . Difficile a maggior ragione perché gli adulti, coloro che dovrebbero insegnarci a guardare e a vivere il mondo, impongono di “non dire niente di quello che i grandi dicono”, per ovvia paura del nemico germanico, ma cosa che nei ragazzi genere confusione. Ad esempio i giovani uomini in erba si domandano cosa sarà mai questo “estremismo”? Forse una malattia? Con questi elementi grotteschi si stempera la drammaticità di fondo della narrazione.

Quando invece la tragedia bellica da tregua, ecco che il calore del focolare domestico è arricchito dal potere del racconto: Il potere narrativo del forestiero giunto in paese, colora di mistero e di fascino le sere dei ragazzi con le storie narrate sulle basi delle costellazioni, e poi regala a libero l’Odissea di Omero, raccomandandogli di leggerlo e facendo leva sulla similitudine fra “LIBRO” e “LIBERO”, ovvero il suo nome. Ecco: il potere della parola narrata e scritta può trionfare su tutto, su un’umanità adulta ma in realtà ancora troppo primitiva per poter liberarsi da quella smania egoica e irrisolta che porta poi alla guerra ; Troviamo dunque il Racconto come recupero dell’umiltà e della primigenìa,che sono elementi chiave per “tornare” a noi. Del resto , per parte sua anche l’umile poliziotto Sinigaglia trova la sua dimensione in una dimessa e grigia solitudine che però è stemperata da alcune considerazioni semplici ma efficaci. Nella sua zia accudente e a modo suo presente , che gli fa trovare sempre piatti squisiti, considera che “non siamo soli finché qualcuno cucina per noi”. Ecco: a modo suo ognuno è in situazioni di precarietà ,a vari livelli: ma è nelle piccole cose che colpiscono direttamente i “sensi” che ognuno troverà il suo riscatto. Del resto , come indica l’autrice “Crescere è un po come essere sempre altrove”, in una instancabile ricerca di verità, personale ed universale. Anche se le “buone cause non sorridono mai”, come ha a constatare il poliziotto e allora sta a noi scavare nel tufo della realtà perché magari anche la guerra di miseria sangue e morte, possa trasformarsi in una “guerra positiva” e possiamo positivamente ritrovarci come degli esploratori, che combattono una guerra di ricerca personale come il “Giapponese nella giungla” ,ovvero colui che non crede che sia finita la guerra anche quando questa è cessata per il resto del mondo.

(L.M.)

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“DONNE CHE CONOSCO” di Laura Basilico (ed. Helicon, 2016)

 

Si dice spesso che la questione “parità di diritti e opportunità” tra uomo e donna è una questione ormai ampiamente dibattuta e superata. Ma che ciò sia assodato non è scontato per tutti. Pensiamo a ciò che diceva Giorgio Gaber “Secondo me la donna e l’uomo sono destinati a restare differenti. Perché è proprio da questo incontro – scontro di posizioni che si muove l’universo intero”: E allora, al di là di come la si pensi in merito, vale forse la pena ascoltare la posizione di chi la questione la vive dal di dentro e non (o non necessariamente) con vittimismo o superiorità, ma con la semplice volontà di far presente situazioni sviscerate con precisione e a volte passione a volta più distacco, ma sempre indicative di un modo di essere e di una sensibilità  che ha diritto ad una “voce” . Ecco dunque questa serie di 12 racconti dove non esiste un vero e proprio filo conduttore se non quello delle varie sfaccettature femminili nelle situazioni più disparate. Il pregio e l’impegno della raccolta (e il merito della sua autrice) è quello di presentare appunto -  sempre con la leggerezza Calviniana cui si accenna nella prefazione – diversi ambiti in cui si sviluppano piccole storie che a volte presentano spaccati fugaci ma rivelatori di vita quotidiana, a volte situazioni decisive ; la famiglia sembra essere un elemento costante che torna quasi sempre, quasi a sottolineare il ruolo in senso positivo che il lato femminile di qualunque essere umano(anche uomo) sostiene nel ricordarci l’importanza delle radici affettive , qualunque sia la nostra situazione di partenza lavorativa, geografica, di salute o di posizione sociale. Non è sempre detto o scontato che la donna ne esca positivamente. Rivelatori ne sono alcuni episodi del libro . Il racconto “UN MANOSCRITTO DA NON SPRECARE” ci presenta la figura di una redattrice alla disperata ricerca di un autore che dopo averle consegnato un plico di un suo romanzo per proporglielo, sparisce misteriosamente nel nulla; da qui partirà una ricerca tanto affannosa quanto morbosa da parte della protagonista per scoprire che fine ha fatto il suo interlocutore; in “SEGRETI EGIZI” una hostess congressuale (come si autodefinisce) è alle prese con l’ingarbugliata faccenda della morte del marito che viene trovato senza vita all’interno della sua “piramide egiziana” che egli stesso, da egittomane, si era costruito in casa; salvo poi scoprire in maniera perfida le carte della questione; “OTTENERE UN POSTO FISSO” offre uno spaccato di vita sociale in cui donne carrieriste si confrontano coi propri ruoli sia lavorativi che genitoriali in una sorta di giostra a chi “se la cava meglio”, salvo poi il colpo di scena finale dove la scoperta sorprendente della giornalista protagonista rivela la vera entità morale di tali “donne in carriera” . Non mancano punte di grottesco estremo , e anche un po’ “autoironico di genere”, come in “DELIRIUM GENERANDI” , dove la smania di maternità di una donna apparentemente tradizionalista e perbenista si rivela una patologia tale da fare uscire pazzo il marito arrivati al quindicesimo figlio;

 

A volte il giudizio sembra quasi come sospeso , senza un apparente compiutezza .Nel racconto “LUCCICHIO” assistiamo ad un breve soliloquio interiore di una donna che medita su una sua scappatella di cui nell’auto dove sta viaggiando è visibile un indizio che poi però si scopre che per pura casualità coincide con un elemento di abbigliamento smarrito da un parente; e dunque il sorriso sornione della protagonista è come una “spia” di qualcosa intendibile sol oda lei e dai lettori.

 A volte invece si palesa un giusto ruolo “risolutore” della donna , con la sua sensibilità pronta, decisa e forte come si rivela anche in senso vincitore ,se è il caso, sull’uomo Vedi a tal proposito la “ PSICOPATOLOGIA DEL MESTOLO QUOTIDIANO”, dove si mettono alla berlina le manie culinarie per far “riscoprire le radici affettive”(chissà non ci sia un sottile riferimento ai deliri vegani di oggi)  ; o ancora “IN UNA PALESTRA DI MONACO”, che apre la raccolta: una giornalista apparentemente d’assalto intervista una scrittrice nota per essere stata la custode di alcuni “segreti umani e professionali” dio un calciatore croato che in piena guerra nell’ex Yugoslavia rifiuta il passaggio alla nazionale tedesca per restare nella sua patria e giocare con la sua nazionale di origine; e infine : in “CREPUSCOLO SCOZZESE” si celebra il totale riscatto di una moglie considerata dal marito alla stregua di una che deve in sostanza “Fare il suo ruolo senza obiettare” ; e invece con somma sorpresa del marito “rispettabile avvocato” essa si rivela una grande poetessa autrice di un hit editoriale.

 

Non è traibile secondo noi alcuna morale di giudizio o di valore da una serie di racconti come questa. Semplicemente possiamo , ognuno con la propria sensibilità e con le proprie posizioni in merito atteggiarci a spettatori degli episodi senza preconcetti di merito; ci potremmo limitare a sottolineare l’esattezza (altra virtù celebrata dalla poetica di Calvino) con cui Laura delinea sapientemente le situazioni e riesce a giungere a conclusioni non sempre ad effetto ma comunque dense di saggezza e colme di qualcosa che ancora non sentiamo ma che comunque potrebbe “rivelarsi” da un momento all’altro per ognuno di noi, nella nostra vita, nei nostri gesti e nei nostri rapporti. Ricordando sempre per concludere ancora con Gaber che, senza l’incontro di due mondi e di due sentimenti differenti (quello maschile e quello femminile), non ci può essere futuro.

L.M.

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