Il vero eroe è chi non ha alcuna ambizione ad esserlo. Certamente l’avvocato Giorgio Ambrosoli , liquidatore della banca privata Italiana del faccendiere Michele Sindona negli anni ’70, ucciso l’11 luglio 1979 da un sicario da Sindona ingaggiato, non ha bisogno di siffatti titoli per essere ricordato. Un uomo che ha deciso di compiere il lavoro di cui era stato incaricato, di compierlo bene ,con dedizione e metodo, e soprattutto “in nome dello stato e non per un partito” ,come scrive alla moglie nella nota lettera che precede di quattro anni il suo assassinio.
La figlia Francesca Ambrosoli descrive in “Giorgio Ambrosoli: dolore orgoglio memoria” (scritto in collaborazione con la giornalista Luisa Bove) la sua versione dei fatti. 15 anni dopo la testimonianza del fratello Umberto rilasciata nel volume “Qualunque cosa succeda” ora è la primogenita a raccontare dal suo punto di vista la stessa vicenda. La “cronaca” dei fatti è essenziale e semplice, in quanto si sceglie di dare maggiore spazio ai ricordi e alle sensazioni personali e alla dimensione più “privata”. Del resto è una sfida dichiarata il fatto di riuscire a raccontare questa storia, su cui Francesca si dichiara essere rimasta in passato nelle retrovie, mentre il fratello e la madre già erano pubblicamente attivi in tal senso.
Sono proprio i particolari, le piccole cose personali e le dinamiche degli affetti coi loro aneddoti, a caratterizzare la narrazione, precisa ma anche fluida e spesso commovente. Per chi conosce personalmente Francesca , lo stile narrativo risulta coerente e complementare alla sua personalità, dolce e decisa allo stesso tempo. Spicca l’elemento della fede, sempre molto presente non solo come conforto rappresentato da autorevoli personalità religiose, ma anche come forza propulsiva e forse decisiva nei momenti più drammatici. Francesca nella fase adolescenziale non ha rapporti intensi coi coetanei, si sente spesso a disagio e, nei momenti di maggiore solitudine, sono svaghi alternativi come la chitarra a farle trovare la pace e la serenità almeno in maniera transitoria.
Ma è forse rimarchevole la dimensione intima del silenzio e dell’ascolto della “Parola” (intesa come parola di Dio ma anche come dimensione dell’affermazione dell’uomo all’inizio della sua comparsa agli albori della civiltà). In un’ottica che il filosofo Brandon LaBelle definirebbe di “giustizia acustica”, si cerca di riportare il senso appropriato della parola e del silenzio come ricerca intima del significato della dimensione “esatta” dell’ascolto. Certamente l’appello muto di Giorgio Ambrosoli non solo non è stato ascoltato da chi all’epoca avrebbe dovuto garantire protezione a chi per esso (cioè per tutti noi) stava alacremente lavorando , ma addirittura a distanza di tempo arriveranno alcune beffarde e ciniche sortite tra cui quella infelicissima di Andreotti, all’epoca dei fatti narrati presidente del consiglio, che sardonicamente commenterà “Ambrosoli se l’andava cercando”!
E’ qui,dunque ,che la speranza che il credente trova nella fede, anche l’agnostico o l’ateo può trovare in UN ascolto preciso. Quello della “Parola”. La parola che però non è “commento”. Il sacerdote che pronuncia l’omelia funebre di Giorgio, in una chiesa semivuota dove praticamente nessun rappresentante dello stato è presente (e qui risuonano inquietanti le parole di Leonardo Sciascia :”Lo stato non può processare se stesso”)invita a non “commentare” quello che non è oggi razionalmente spiegabile. Come è possibile che un uomo, per avere fatto il suo dovere , faccia una fine così atroce, abbandonato dallo stato per aver fatto con rigore rispettare le sue leggi? Nell’invito a evitare il commento perché “di disturbo al dolore”, forse è davvero il SILENZIO che può portare all’ascolto del “giusto”. Nel silenzio, nella semplicità di essere, di comportarsi, nella discrezione degli atteggiamenti con cui ci si affaccia al mondo che ci aspetta, si trova la forza e la ragione per andare avanti e testimoniare, con una “parola” pura, onesta, legale, e priva di orpelli. Come lo è Francesca. Come molti altri testimoni di dolore e di forza “appresa”, ereditata e portata avanti con dignità.